Volare bassi

Uno dei grandi fenomeni di questo tempo che saranno ricordati nei secoli (sempre che l’umanità abbia ancora dei secoli davanti) è certamente il fenomeno della migrazione umana. Da quando esistono i mezzi di trasporto globali (per primo il transatlantico, e poi l’aereo, low cost o meno), l’umanità ha sentito il bisogno di andare altrove, spesso insieme all’intera famiglia, per non tornare indietro – se non occasionalmente. Naturalmente la prima considerazione che si fa su questo fenomeno riguarda la necessità: si emigra per bisogno, per trovare nuove opportunità, per salire nella scala sociale, per non morire di fame… C’è però un tratto comune, studiato anche dai sociologi, che riguarda la personalità dei migranti: per ognuno che se n’è andato c’è qualcun altro che, pur nella stessa situazione, è rimasto a casa. La ragione è che chi si sposta, perfino nelle situazioni più estreme (salvo a essere profughi di guerra, di pulizia etnica, ecc.), lo fa anche perché ha la mentalità giusta per farlo. Non è un passo facile (come qualcuno sa lo sto facendo personalmente) ma ha i suoi vantaggi.

Il mondo è pieno di italiani. Qui in America sono milioni, hanno nomi eccezionalmente italiani che indossano con orgoglio. Sono i figli delle varie ondate di emigranti, molto italici a vedersi (e a volte a vestirsi) ma perfettamente integrati nella società americana. C’è poi un altro genere di migrante, più simile a me. Sono gli intellettuali, gli artisti, gli scienziati che a un certo punto si sono stufati e sono venuti via. Questi emigranti sono profondamente diversi dagli Italo-americani, pur essendo anche loro degli avventurieri. Non hanno alcuna nostalgia dell’Italia, anzi: leggono i giornali italiani (e a volte guardano i Tg Rai, una tortura alla quale non mi sono sottoposto) e, mentre s’incazzano per l’ennesima carnevalata Berlusconiana, si felicitano con se stessi per essersene andati. E se da un lato coltivano la passione per le molte cose buone che l’Italia offre al mondo (come il pesto genovese, i pomodori cuore di bue e la costiera amalfitana) dall’altro si guardano bene dal rimpiangere queste meraviglie: si ricordano ancora troppo bene le ragioni per le quali sono scappati via.

Che non sono solo Borghezio e Rotondi (oddio, Rotondi me l’ero scordato). In Italia abbiamo un problema col successo e la creatività; appena uno ha un minimo di rilevanza tendiamo a buttarlo giù, a minimizzare. In Italia piace la mediocrità, e chiunque voglia distaccarsene viene visto con sospetto, se non direttamente con disprezzo. E’ uno dei motivi per cui sono scappato via da Roma (che è una palude di sufficienza senza fondo, tra i posti con la peggiore mentalità del mondo, secondo la mia esperienza), ma è un problema intensamente italiano. Chiunque si sia messo in evidenza in uno qualsiasi dei campi della creatività prima o poi se n’è andato: l’altro giorno alla scuola dove insegno c’è stata la consegna dei Master, e il discorso ufficiale è stato affidato a Renzo Piano (che ha anche ricevuto una laurea ad honorem). Non amo particolarmente Piano, non sono un fan della sua architettura (anche se ne riconosco il valore e la rilevanza) o del suo stile (decisamente Piano). Mentre parlava però mi chiedevo quante fossero le sue recenti realizzazioni in Italia (paese nel quale non vive più da anni): basta andare su Wikipedia per scoprire che sono poche (un’eccezione è ovviamente l’Auditorium a Roma).

Ma non è solo Piano: la lista è infinita, in moltissimi settori diversi, ma con una simile motivazione sottostante. Gente che si è stufata di sentirsi dire (come è capitato mille volte a me): “Ah, fai il musicista, una cosa fantastica… Si, però che lavoro fai?” E questo non riguarda chi ci governa, ma una mentalità diffusissima della quale siamo prigionieri – e che se non stiamo attenti potrebbe spegnere anche quel piccolo lumicino che ancora illumina la buia Italia: è vero che la situazione socio-politica italiana suggerisce mediocrità, pecoronismo e scarsa intelligenza come qualità essenziali per il successo, ma insomma non esageriamo.

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