Tra tutte le possibili forme di comunicazione tra umani quella di predicare ai convertiti è certamente una delle più miserabili, eppure nel 2023 è diventata comunissima. Rafforzare le opinioni, alimentare le paure, farci sentire legittimati nei nostri atteggiamenti anche più estremi sembra essere diventata la tecnica preferita dei comunicatori moderni. L’obiettivo è ovvio, il consenso. Ma oggi quello del consenso è uno sport diffusissimo, purtroppo non solo tra politici e personaggi pubblici (che vivono di quello). L’immagine classica del predicatore ai convertiti è il prete la domenica. Infatti gran parte della messa è dedicata a rafforzare le credenze, rinnovare le convinzioni. Però talvolta perfino il sacerdote durante l’omelia azzarda dei dubbi, illumina qualche contraddizione, qualcuno addirittura fustiga i fedeli. Non è così ai comizi sindacali o politici. Il discorso in piazza è il format perfetto per rafforzare le opinioni, molto ben collaudato negli anni. I partecipanti magari scoprono anche delle idee nuove, ma innanzitutto sono lì per sentirsi dire che le loro opinioni sono buone. L’oratore sul palco non insinua dubbi (“Siamo sicuri che un aumento di paga sia proprio necessario?”) ma proclama cose chiare, univoche, inequivocabili – dalle quali è impossibile che qualcuno dei presenti dissenta: “L’aumento è urgente e sacrosanto!”. Pure l’informazione da sempre è schierata politicamente, e si comperano i quotidiani (o si guardano certi programmi) sulla base delle proprie convinzioni. Però storicamente il ruolo della stampa era anche quello di presentare sguardi difformi e perfino radicali: non tutte le testate (anche televisive) che hanno ospitato le opinioni di Pasolini erano d’accordo con lui, ma coglievano il senso della sua presenza che era (non solo ma spesso) quella di chi pensava contro, di chi si metteva (intellettualmente) di traverso per principio, per metodo.
Poi durante gli anni ’80 è successo qualcosa. Progressivamente si è andata perdendo l’idea che la comunicazione contropelo avesse una ragion d’essere, e alla varietà di opinioni si è sostituita la variazione sul tema. Programmi, giornali, riviste e talvolta intere reti televisive che raccontano al proprio pubblico quello che già crede, articolandolo in variazioni infinite. Purtroppo anche la politica si è rapidamente adeguata, ha mandato in soffitta espressioni come “Non ho altro da offrire che sangue, fatica, lacrime e sudore” (W. Churchill) per sostituirle con “Un milione di posti di lavoro”: esplode il populismo, del quale abbiamo visto (e stiamo vedendo) gli esiti. Gli obiettivi difficili, dolorosi ma necessari sono scomparsi dalla scena, rimpiazzati da Bonus, Superbonus e tregua fiscale (espressione profondamente incivile: suggerisce l’idea che tra lo stato e la popolazione ci sia una guerra). Il segreto del successo in politica (non da oggi) è realizzare per quanto possibile i desideri del proprio elettorato anche se ignobili o non sostenibili, ignorando qualsiasi possibile futura sciagura derivante (tipo il nostro oceanico debito nazionale). Negli ultimi anni Radio e Tv hanno sposato questa prospettiva e sistematizzato questo approccio. Oggi si presentano quasi esclusivamente opinioni che sollecitano una risposta positiva da parte del proprio segmento di pubblico – che concorda con Floris, Del Debbio, Vespa o Cruciani. L’apparente “dibattito” (cioè quella indegna cagnara ululata) è quasi sempre pura coreografia: alla fine tutti rimarranno della stessa idea, soprattutto gli spettatori.
Anche nel mondo dello spettacolo questa strategia paga bene ma almeno qui i danni sono limitati – o quasi. Certo, c’è stato un tempo in cui si rivendicavano scelte radicali col rischio di alienarsi parte del pubblico (un esempio? Nel ’63 Mina ebbe un figlio fuori dal matrimonio, fu massacrata dalla stampa e bannata dalla Rai ma contribuì a spostare in avanti il paese). Oggi la controversia è pilotata, pensata per polarizzare, quindi vieppiù utile a rafforzare le opinioni degli spettatori. Secondo voi il grido “Giorgia legalizzala!” di Fedez e J-Ax a Sanremo si rivolgeva alla premier (sperando di convincerla) o ai propri fan? Tanto di cappello a Tiziano Ferro che rischiò un pezzetto di popolarità facendo coming out nel 2011. Gli influencer (temine che suggerisce qualcuno che influenza le idee dei follower) mi sembrano profondamente influenced, attentissimi a non urtare la sensibilità del proprio pubblico e a rafforzarne le opinioni. L’aspetto mozzafiato è che oggi, per via dei Social media, non solo viviamo in una bolla di consenso ma siamo tutti predicatori ai convertiti, tossici della botta da like o semplicemente poco fantasiosi. I risultati sono desolanti, ne ho scritto qualche tempo fa. Ecco perché qui sto bene: ogni tanto vi faccio incazzare, talvolta di brutto, me lo fate presente (via email o a voce, perfino con enfasi) ma poi la stima resta quasi sempre immutata.