Ogni nuova generazione ha le proprie battaglie. Capire cosa ci pare ingiusto e sbagliato è un procedimento complesso fatto di ragione e sensibilità. Spesso la molla è personale: indignazione, insofferenza, ribellione sono sentimenti innanzitutto intimi che talvolta poi si trasformano in azione sociale. Oggi il tema che sta a cuore ai ventenni è quello dell’ambiente. Da vecchio non sta a me giudicare la bontà delle loro istanze. Però quando nessuno mi vede me ne rallegro moltissimo, per un motivo: il tema dell’ambiente ne contiene molti altri, e tentare di risolvere quel problema inevitabilmente porta a riflettere sul funzionamento del mondo – non solo dal punto di vista climatico. Questo è stato vero per moltissime cause del passato (come il femminismo o i diritti, battaglie che riguardano l’intera società), ma per l’ambientalismo vale doppio. La questione climatica infatti è strettamente legata al nostro stile di vita e a molte delle ingiustizie del mondo. Inoltre contiene una battaglia che, secondo me, è la madre di tutte: il consumerismo, la pratica di produrre critiche e strategie per migliorare il modo in cui consumiamo. Molto si discute sull’e-commerce ma mi pare solo la punta dell’iceberg, e una visita al supermercato può rivelarsi un’esperienza illuminante.
Inizierei dalla maionese: abbiamo davvero bisogno di 18 varietà? Certo, ci piace scegliere, ma le implicazioni di questa scelta vanno comprese. Nel mondo della libera circolazione delle merci (sempre su mezzi inquinanti), è possibile che una maionese fatta in Austria contenga uova norvegesi, additivi coreani, grassi vegetali bulgari e emulsionanti spagnoli. Materie prime che viaggiano fino in Austria per essere lavorate e quindi confezionate in barattoli di vetro made in Montenegro – ma non l’etichetta che si stampa a Caserta. In un’ottica di lotta ai cambiamenti climatici ha senso una filiera di questo genere? Tutti cerchiamo di ottenere il massimo dal nostro budget, possibilmente senza farci mancare quasi niente. Quindi se mi servono delle magliette (generiche, intimo) vado al supermercato, guardo cosa c’è e quanto costa. L’ultima volta avevano delle t-shirt decorose, forse perfino ben fatte a un prezzo irresistibile: 1.99 per due magliette – prodotte in Bangladesh. Non serve essere economisti per fare due conti: se una maglietta a me costa 0.995, quanto la paga la grande distribuzione? E l’importatore europeo? Il grossista bangla? Per contro: quanto guadagna un lavoratore asiatico il cui prodotto in Europa costa così poco? Il reparto frutta (nella foto) è perfino più brutale: banane della Costa d’Avorio vendute a 0.95 al chilo. Frutta raccolta e inscatolata a mano, imbarcata su un bastimento e distribuita coi camion per arrivare fino a me, uno stronzo europeo che può mangiare banane (non esattamente un genere di prima necessità che però costa un quarto delle mele locali) mentre il mondo si sgretola. Ovviamente la soluzione non è smettere di importare prodotti esotici che ridurrebbe alla fame intere popolazioni, ma capire che consumare meno e meglio forse aiuta.
Qui entra in gioco anche un concetto essenziale: il giusto prezzo. Dove giusto vale in tutti i sensi: accettabile per le nostre finanze, equilibrato e rispettoso dei criteri di giustizia sociale e economica. Il prezzo della t-shirt bangla corrisponde certamente al primo, ma forse non agli altri due? Se mi batto contro il degrado dell’ambiente forse mi sto anche battendo per più giustizia economica, per un ripensamento dei nostri consumi e una maggiore consapevolezza delle filiere commerciali? Su Bandcamp c’è una opzione che mi piace molto: posso vendere un disco a un certo prezzo ma chi lo compra, se crede, può anche pagarlo di più. E molta gente lo fa, seguendo lo stesso ragionamento: qual è il prezzo giusto per questa musica? Ovviamente non si può fare lo stesso con la banane africane, però mi pare una bella utopia (in parte realizzata dai molti progetti europei di consumo equo e solidale).