Cover

Ecco un genere trasversale e a volte controverso che esiste da quando esiste la musica ma nel corso degli anni ha assunto ruoli e funzioni diverse. Spregevoli o sublimi, geniali o furbesche, necessarie oppure totalmente inutili, la vicenda delle cover è così tortuosa da meritarsi un riassunto. Prima della diffusione dei dischi la quasi totalità della musica era costituita da “cover”. Nella musica scritta il concetto di originale non esiste proprio: c’è la partitura e le interpretazioni dei vari musicisti. E non è detto che una musica sia migliore se a interpretarla è l’autore: nella Classica c’è una separazione dei ruoli molto rigida e un compositore può scrivere parti meravigliose di oboe senza doverlo saper suonare. Nella Musica Popolare gli autori invece erano quasi sempre ignoti e le melodie transitavano da orecchio a orecchio, da voce a voce. Ovviamente questo passaggio rende fluide le composizioni: se ascolto una melodia e il giorno dopo la ricanto, non avendo a disposizione una registrazione posso solo fare appello alla mia memoria e cantarne una versione che inevitabilmente conterrà anche la mia creatività. In questa fase non esiste ancora l’originale bensì la versione “migliore”, che diventa l’originale fino a quando non ne compare una più bella. L’arrivo dei dischi cambia tutto. Non solo posso ascoltare un interprete eccelso ma, riascoltandolo, posso cercare di imitarlo: il 100% dei musicisti Pop, famosi o meno, ha imparato così. Le session di Louis Armstrong con gli Hot Seven a Chicago nel 1927 sono uno dei grandi momenti della storia del Jazz: non solo producono “versioni originali” anche di brani non originali, secondo la modalità della Musica Popolare, ma istigano e fanno progredire diverse generazioni di jazzisti introducendo innovazioni che si usano ancora, e inaugurando un repertorio oggi obbligatorio per chi suona Jazz – dove le cover si chiamano Standard e sono l’educazione di base. Questo è vero per tutta la Popular Music, dal Jazz al Funk, dal Punk all’Indie: la musica nasce sempre anche da altra musica, e il confine tra cover, tributo e brano originale spesso si confonde.

Il fatto che la versione migliore (o la più venduta) diventi l’originale ha un rovescio terribile. Esistono schiere di interpreti di hit popolarissime morti poveri: le loro canzoni erano state reinterpretate (a volte subito dopo) da artisti molto più popolari, Elvis, Sinatra, i Beatles – la lista è infinita. Quando invece si trattava di autori/interpreti la cover famosa diventava una benedizione divina, e c’è chi con una versione fortunata ha campato dignitosamente tutta la vita. In certi casi la cover era molto simile all’originale mentre in altri si prendeva una melodia, un testo, un ritornello efficaci e si adattavano al proprio stile. Hound Dog nella versione di Elvis (1956) musicalmente non somiglia molto alla versione originale di Big Mama Thornton del ’52. Però somiglia a quella di Freddie Bell and The Bellboys uscita nel ’55 – soltanto una delle dieci cover intercorse tra Big Mama e Elvis, che produce la Hound Dog definitiva dalla quale discenderanno tutte le successive. Va detto che nessuno di questi è l’autore del brano, scritto da due hitmaker, Leiber & Stoller. In Italia poi abbiamo un sottogenere di cover particolare: la versione italiana. Ancora fino agli anni ’80 se ne avvistano degli esemplari come I Giardini Di Kensington (Reed, Dossena, Monti) di Patty Pravo o Tutto Nero (Jagger, Richards, Beretta) della Caselli: ai posteri, cioè voi, l’ardua sentenza.

Negli anni ’80 si diffondono le versioni aggiornate, cover spesso simili all’originale ma aggiornate nei suoni, nella produzione, nell’acconciatura del cantante nel videoclip. Versioni che a volte però diventavano “originali” per quella generazione (vedi Tainted Love dei Soft Cell). Con l’arrivo del Campionatore nasce un ulteriore tipo di cover col ritornello originale campionato e la strofa Rap, operazioni talvolta geniali ma spesso soltanto furbe. L’apoteosi si raggiunge con le Cover Band, divise in due tipi: i filologici (tutto “identico” inclusi i vestiti) e i baleristi, che adattano qualsiasi cosa al loro stile rumbero. Infine le mie cover preferite, quelle trasformative: si prende una canzone e si ripensa, se ne scoprono altri risvolti non solo facendola propria ma portandola in luoghi sonori sconosciuti e esotici: l’esempio da manuale è All Along the Watchtower, la cui cover di Hendrix fulminò perfino Bob Dylan, già famosissimo: “Da allora la canto come lui”. Time After Time di Miles, By the Time I Get to Phoenix di Isaac Hayes, Killing Me Softly dei Fugees, Walk On By degli Stranglers, Proud Mary di Ike & Tina e Hurt di Johnny Cash sono alcuni tra i tanti esempi, e hanno spesso un tratto comune: si apprezzano meglio se si conoscono le versioni originali. Nel 2023 questa mi pare la discriminante tra una cover sensata e passare all’incasso, magari dignitosamente, con qualcosa di già sentito.

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