Ma che adesso ce l’hai anche col Calcetto? Affatto, non lo pratico ma non ho niente contro questa nobile attività. Se avete un minuto di pazienza vi spiego che c’entra con l’argomento di questo mese. Si parla molto di violenza di genere e di sessismo, purtroppo quasi sempre a ridosso di orribili fatti di cronaca, mogli ammazzate, ex compagne oggetto di stalking e violenza. L’ho fatto anche io qui in passato, e penso di rifarlo in futuro: è un argomento urgentissimo e bisogna parlarne il più spesso possibile, specialmente essendo maschi, magari anche in situazioni meno comode di una rubrica su Rumore.
Uno degli interrogativi ai quali si cerca di rispondere per spiegarsi tanta violenza è: da dove viene? Dove si impara? Dove si nasconde e prospera? Una domanda legittima: nessuno di noi farebbe mai cose del genere. Lo dico senza ipocrisia: sono profondamente convinto che la stragrande maggioranza dei miei lettori siano persone perbene. Come ho scritto in passato, sicuramente c’entra l’educazione: nella famiglia si imparano certe dinamiche e si assorbono certe convinzioni profonde, come che una donna sia di proprietà di qualcuno. Naturalmente c’è chi è in grado di superare queste convinzioni evolvendosi (e educando diversamente i propri figli), e chi invece ci rimane incastrato a vita malgrado il mondo sia cambiato. Questa gente va punita e poi rieducata: nessuno di noi vorrebbe veder crescere bambini e bambine in un mondo popolato da credenze così infami. Non esiste giustificazione per comportamenti del genere, che non hanno niente a che vedere con il raptus o la follia ma sono frutto di una stortura della nostra società che va corretta al più presto, con ogni mezzo necessario. C’è però un altro aspetto che secondo me è cruciale, e che forse risponde alla terza domanda. Perché sì, magari il sessista lo impara in famiglia, ma se poi il mondo intero gli dimostrasse che si sbaglia, che la sua ex può avere dei legami senza che ne vada del suo onore, forse si scoraggerebbe. Invece esiste un terreno piuttosto fertile nel quale queste convinzioni crescono, alimentate da silenzi, ammiccamenti, complicità maschile. Cioè la complicità mia e la tua, se sei un uomo.
Su Repubblica del 17 novembre 2020, sotto il titolo “Torino, video hard della maestra d’asilo sul web. E dopo la gogna è licenziata” leggo: “La donna, che lavora come maestra nell’asilo del paese, e il ragazzo si frequentano per un periodo: lei in quelle settimane gli invia alcune sue foto, 18 per la precisione, e un video hard in cui lei è riconoscibile per un dettaglio visibile. La storia nel frattempo finisce ma il ragazzo condivide tutto nella chat del calcetto su WhatsApp e per lei inizia l’incubo”. Aldilà delle obiezioni sessiste (chiedersi perché lei ha spedito quelle foto è come dire “Com’era vestita?” o “Che faceva in giro a quell’ora?”) c’è una domanda interessante: come mai lui ha scelto proprio la chat del Calcetto? Forse perché in quella chat ci sono sicuramente solo maschi? Per esperienza diretta so benissimo che in un ambiente di soli maschi si fanno e dicono cose che si omettono in contesti misti. Lo so da sempre, e detesto stare tra maschi proprio perché in agguato può sempre esserci un commento, una gomitata, una confidenza o perfino una foto sullo smartphone alla quale potrei dover reagire, rovinando la serata. L’alternativa è fare finta di niente o peggio annuire, ma questo sarebbe imperdonabile perché alimenterebbe la catena, suggerendo al sessista che le sue idee sono condivise, che anche io vedo il mondo come lui, che non c’è niente di male nel chiamare troia la sua vicina perché secondo lui si veste succinta. Ecco perché evito i contesti di soli maschi come la peste. Però se ci penso bene, in un mondo oramai abbastanza evoluto, mi vengono in mente solo due situazioni dove resiste una rigida separazione di genere: lo Sport, per motivi fisiologici (ma non il tifo), e la Prigione. Ecco una cosa su cui meditare.