Sartoria creativa

Uno dei tanti cambiamenti portati dalla registrazione musicale è un fatto apparentemente ovvio, ma le cui implicazioni sono tutt’ora molto interessanti. Una volta un brano musicale aveva due possibili vite: era cantato dal suo autore e ascoltato da altri, che poi l’avrebbero ricantato a loro volta (diventandone inevitabilmente, nel bene e nel male, coautori), oppure veniva scritto e poi eseguito. Con la registrazione invece, specie nella Popular Music, compositore e esecutore sono indissolubilmente legati dalla registrazione. Inner City Blues di Marvin Gaye, per esempio, è certamente una composizione eseguibile da chiunque. Però si sa che l’originale di quella canzone non è il suo spartito, ma la prima registrazione di Marvin Gaye, non a caso detta “Versione Originale”. Oggi sappiamo tutti che se si dice All you need is love, si intende la versione dei Beatles; altrimenti si aggiunge la dicitura “nella versione di…”

Quindi si passa da una situazione dinamica, nella quale la musica veniva ogni volta reinterpretata, ad una invece statica: oggi posso ascoltare Purple Haze esattamente come quando Hendrix era vivo: la registrazione rende quell’esecuzione immortale. Di più; quella registrazione è l’originale, la versione vera, autentica: quella è Purple Haze. Poi naturalmente si possono fare delle Cover version, assai in voga negli ultimi anni, ma appunto di versioni si tratta: variazioni di originali già famosi e a volte inarrivabili. Parallelamente nasce il fenomeno delle Cover Band, che riproducono (quasi) esattamente il suono di un artista. Il loro valore non sta nella dinamicità dell’esecuzione, ma proprio nel contrario: più sono uguali, meglio sono.

A rendere nuovamente dinamica la situazione arriva, negli anni ’80, la tecnologia digitale, che consente di introdurre elementi di registrazioni musicali preesistenti nella propria. Nasce così l’arte di manipolare vecchie canzoni per farne nuove versioni, che stavolta però contengono elementi dell’originale. L’inclusione di campionamenti, noti o oscuri, in nuovi brani, una forma di tributo spesso esplicita, ha davvero rinnovato la musica negli anni ’90, creando al contempo infinite cause legali. Ovviamente la profonda natura Pop di questa idea, vecchi suoni in un nuovo contesto, ha reso la qualità assai variabile; e se Mozart su una cassa in quattro è ripugnante, la voce di Meredith Monk campionata in dischi rap o dance mantiene inalterata la sua qualità sciamanica, anche nel mezzo di una tempesta elettronica.

L’arte del remix, una forma di utilizzo più massiccia (spesso di singole parti) e quindi spesso, ma non sempre, autorizzata, è tra le più floride nel terzo millennio: si prendono alcuni elementi da un brano e gli si costruisce intorno un contesto diverso. Dai pigmei Baka del Camerun a Steve Reich, passando per Elvis e Miles Davis, un enorme numero di registrazioni è stata remixata negli ultimi vent’anni; si va dal sublime all’osceno, fino al miracoloso: quasi nessuno al mondo ha mai sentito la versione originale della Macarena; il successo planetario ce l’ha avuto il remix. Esistono star di questo genere, come Francois K. o i Basement Jaxx, che possono rendere una canzone molle una hit; e ci sono grandi artisti come Aphex Twin, il primo a fare un remix senza usare alcun elemento della canzone originale, capaci di dare profondità a brani insospettabili. Di tutte le arti digital-musicali, quella di includere frattaglie di vecchio nel nuovo è certamente la più simile all’artigianato: ore, giorni di taglia e cuci, copia e incolla, allunga e restringi. Che può essere bassa macelleria, o alta sartoria – come quasi tutto, nella musica.

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