Quality last!

Una delle diatribe ricorrenti degli audiofili, specie questa sempre più rara, riguarda la minor qualità del CD rispetto a quello del disco e più ancora il nastro. E’ un dibattito antico, interessante e per certi versi anche pericoloso: l’industria non è certamente passata al CD per motivi di qualità: era più economico, più automatizzabile, più facilmente stoccabile e distribuibile e, soprattutto, le consentiva di rivenderci l’intero repertorio, creando così un anno zero dell’industria discografica (in realtà durato una decade) che le ha praticamente salvato la vita. Insistere sulla cattiva qualità dei CD potrebbe incoraggiarla a insistere sul Super Audio CD (SACD), nel tentativo di rifilarci “The White Album” per la quinta o sesta volta a prezzo pieno.

C’è invece una questione, forse marginale, che mi dà da pensare e di cui voglio parlarvi. Nelle nuove tecnologie, l’attenzione alla buona qualità è enorme in certi settori, come quello della HDTV, ma scarsa in altri – come per esempio la qualità audio. Non solo, ma si tende a sacrificare la bontà dell’ascolto per puntare su altri fattori: la portatilità, la leggerezza (in bytes), la miniaturizzazione. Col risultato che, paradossalmente, più il tempo passa e più si sente peggio.

L’audiofilo degli anni ’70 non solo sceglieva i vari componenti del suo impianto in base ai suoi gusti sonori, ma arredava una stanza quasi appositamente: l’ascolto era un’esperienza estetica, oltre che musicale. Le sue cuffie, immense, lo aiutavano a isolarsi dal mondo (quello immediatamente intorno allo stereo, essendoci il cavo). La posizione perfetta per la cuffia era sdraiati a occhi chiusi, completamente immersi nell’ascolto. Poi è arrivata la cassetta, che si sentiva peggio ma era registrabile, e soprattutto portatile: la musica esce dal soggiorno e irrompe nel mondo. Qualche anno dopo compare il walkman; l’ascolto, tra la cassetta e le cuffie leggere, non è un granché, ma il concetto geniale di personal audio funziona, e il walkman diventa il principale riproduttore di musica per milioni di persone. E gli audiofili?A loro le cose non vanno benissimo: tra radioni a luminaria e compattoni con cd, radio e cassette, il mercato dell’Hi-fi è entrato in crisi negli anni ’80 ed è cambiato per sempre.

Col diffondersi di Internet la situazione ha avuto un ulteriore tracollo: oggi le principali casse di molte persone sono quelle porcherie da 7 euro che hanno attaccate al computer; ma anche se avessero speaker migliori, comunque ci ascolterebbero degli Mp3. E l’Mp3 suona male, specie i generi musicali non pop (con meno bassi e meno dinamica). Tutti i nuovi standard audio per il pubblico (come WMA o AAC) non puntano sulla qualità, bensì sulla riduzione del file. Personalmente diffido di qualsiasi formato definito “loseless”: compressione senza perdita è un po’ come dire “mangi e non ingrassi”, non regge.

Oggi il paradosso è compiuto, e il vero lusso nel campo dell’audio (un lusso di massa, s’intende) è anche lo status symbol della studentessa fica del 2006: l’Ipod, bello pieno di mp3, con le sue mediocri cuffiette bianche. Volendole sostituire con un altro paio ci sono non pochi problemi: i molti modelli disponibili nei negozi si caratterizzano per la miniaturizzazione, l’allaccio, il colore, la pressione dei bassi, il volume massimo, ma nemmeno uno punta sulla buona qualità dell’ascolto – salvo a comprarsi i buoni vecchi cuffioni di una volta. Quindi forse è vero che il CD suona peggio del Vinile. Purtroppo però l’Mp3 suona meno del CD, e tutto lascia pensare che il prossimo standard suonerà anche peggio. Però in un Ipod c’entreranno decine di milioni di canzoni. Quindi al futuro la qualità dell’audio sembra interessare poco. Dice infatti lo spot: “Fino a 20.000 canzoni”. Sono circa 70 giorni di musica, 1.700 ore. Magari stavolta bastano.

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