La macchina del mondo

Nel corso della storia ci sono stati infiniti tentativi di incorporare i suoni della natura nella musica. Questi suoni hanno sempre evocato un’armonia implicita ma sublime: infatti un paesaggio fatto di ruscelli, uccellini e vento viene considerato riposante, mentre il traffico urta i nervi. Per millenni, l’unico metodo per evocare la natura nella propria musica era di simularla con gli strumenti, e gli esempi sono infiniti – da Beethoven in giù. Col tempo però, la corrispondenza violini/vento e timpani/tuono si è rivelata insufficiente, e insoddisfacente. Tant’è che a fine ‘800 si sentì il bisogno di dotare l’orchestra di una macchina del vento, un congegnone rotante di legno e stoffa mosso da una manovella. Solo qualche anno dopo, e precisamente negli anni ’30, nasce la Novelty Music, un genere minore ma strepitoso, che ha avuto i suoi paladini in Spike Jones and the City Slickers. Nella Novelty vale tutto, e agli strumenti tradizionali, spesso utilizzati in maniera r/umoristica, si affiancano pentole, richiami per uccelli e altri oggetti rumorosi – spesso inseriti nella trama della musica. L’apoteosi di questo genere restano i cartoni animati di Hanna & Barbera, specialmente quelli musicati dal geniale Carl Stalling. Qui la musica, al servizio di animazioni surreali e impossibili, si frammenta, si sincopa e si miscela con la colonna dei rumori creando una fantasmagoria di audio davvero inaudita. Ovviamente però fino a qui si parla sempre di imitazione dei suoni naturali: le tecniche di registrazione e riproduzione ancora non consentivano di inglobarli in modo convincente, salvo a portarsi degli uccelli in studio, o andare a registrare in campagna.

E’ con la Musica Concreta da un lato, e la Ambient dall’altro, che questa ricerca torna attuale; e se la prima si proponeva di creare un’armonia di rumori (con risultati spesso interessanti ma di rado esteticamente piacevoli), la seconda (benché apparentemente affezionata a ambienti artificiali come gli aeroporti) ha spesso cercato di collocarsi al confine tra musica e paesaggio sonoro naturale. La copertina dell’album “Cluster & Eno” è quasi un manifesto programmatico: un microfono rivolto verso il mondo. Poi, negli anni ’80, è arrivato il digitale, il campionamento, e quello che pareva impossibile è diventato semplicissimo: l’inserimento di rumori e suoni naturali poteva avvenire direttamente in fase di composizione, ampliando immensamente la tavolozza dei suoni impiegabili in un brano musicale.

Purtroppo però questo è avvenuto solo in piccola parte. Certo, capita di sentire in una canzone il campionamento di un vetro che si rompe a tempo, o il suono della risacca. Però, date le infinite possibilità, mi pare davvero pochino, mentre tutto il resto è sostanzialmente inesplorato. Come mai non ho ancora sentito un brano di Be bop con un assolo di usignoli? Oggi non solo è possibile, ma avrebbe senso: dopotutto Charlie Parker non lo chiamavano Bird? Come mai nessuno ha tentato un’orchestrazione di La Mer di Debussy utilizzando (con discrezione e eleganza, ovviamente) autentici suoni marini? Forse si ha paura di essere poco filologici? E chi ci dice che Debussy stesso, potendo, non l’avrebbe quantomeno provato? E chissà perché nessuno ha tentato un’operazione piuttosto prevedibile, magari orrenda ma di sicuro impatto mediatico, come far eseguire “Il Volo del Calabrone” a un Calabrone. Non credo che Rimsky Korsakov se ne avrebbe a male: dopotutto l’ha scritto lui, e resta uno dei brani più spudoratamente pop della Storia della Musica, dalle origini.

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