Jazz not dead

Ecco un genere poco frequentato su Rumore, giustamente. Noi ci occupiamo di musiche nuove, o semmai di vecchie che tornano, ma comunque di suoni ancora viventi; il Jazz, quello sassofonato e spazzolato, è tenuto in vita artificialmente come la musica barocca. L’ultima sua incarnazione è stata la fusion degli anni ’80, una musica così superflua che mi faccio impressione solo ad averne scritto il nome. Non ce n’è: il Jazz è morto. La cosa buffa è che questa affermazione è stata fatta molte volte dai critici fin dagli anni ’50, e forse avevano già ragione. Detto questo, per un lungo periodo ho pensato che il Jazz fosse tra le cose più belle al mondo e in qualche modo lo penso ancora. Vorrei spiegare perché.

Per convenzione si fa coincidere la nascita del Jazz con l’inizio del ‘900. Beh, si può ragionevolmente sostenere che fino al 1950 il Jazz è stato esattamente come la House. Ambedue le musiche nascono underground, in piccoli club, con una funzione esclusiva: far ballare la gente. In tutti e due i casi prima della musica viene il ritmo, che deve essere perfetto. Dice Duke Ellington: “It ain’t the melody, it ain’t the music, there’s something else that makes this tune complete. It don’t mean a thing if it ain’t got that swing”. Capito? Non è la musica ma il beat (che lui chiama swing) che rende la musica bella; se chiedete a Coccoluto vi dice esattamente la stessa cosa. E c’è di più: ambedue le musiche sono portatrici di uno stile, di un dress code che nel caso del Jazz era fantastico: zoot suit, baggy pants, cappelli che levati. Anche il Jazz è stato associato alle droghe, innanzitutto la marijuana; infatti sia Jazz e House sono musiche di frenesia ed estasi: se ascoltate le registrazioni dal vivo della big band di Count Basie (un genio totale, iperstiloso e straballabile) sentite le stesse identiche grida che punteggiano un buon dj set House. Negli anni ’30 si tenevano battaglie di big band, e la gente decretava i vincitori strillando e ballando. I più bravi ottenevano lunghi ingaggi nei club dove la gente tornava sera dopo sera, magneticamente attratta dalla perizia della band nel muovergli il culo. Somiglia a qualcosa?

E ancora: come la House anche il Jazz è nato in piccoli club per poca gente molto avanti. Poi piano piano ha cominciato a permeare tutta la musica pop dell’epoca, fino a diventare il sottofondo (spesso vuoto e meccanico) dei grandi cantanti come Sinatra, perlopiù bianchi. Esattamente quello che è successo prima coi beat Hip hop (ormai usati per qualsiasi spot di pannoloni) e poi con la cassa dritta. Il Jazz dell’inizio era una musica fatta da ignorantoni con stile a pacchi, che privilegiavano l’energia pura alla ricerca melodica e alla perfezione strumentale: era una musica immediata, che produceva il suo effetto nella collisione con le gambe del pubblico. Una musica frenetica e liberatoria, spesso considerata corruttrice da chi non la capiva. Che vi ricorda?

Poi ad un certo punto il Jazz s’è incartato, è diventato intellettuale, complicato. Ha continuato a produrre geni (tra cui Miles Davis e John Coltrane, che sono nella Storia della Musica come Bach) ma è diventato una musica d’arte per pochi e s’è incarcato nel suo elitarismo, spegnendosi serenamente negli anni ’80 (subito dopo aver partorito il mostriciattolo fusion).

Eppure lo spirito del Jazz sopravvive. Ma non nella logorrea sassofonica incravattata proposta nei costosi club del centro, ne’ nella dotta disamina di ogni scoreggetta del dott. Wynton Marsalis sulle riviste specializzate. No, il Jazz vive in molte delle musiche che piacciono a noi: nelle curiose avventure ritmiche di Kid Koala e nelle maestose strutture di Amon Tobin; nel killer instinct di Carl Craig e nelle inesorabili progressioni di Francois K. Nelle metriche del sublime Dj Gruff (un grande jazzista italiano contemporaneo) e negli incastri di Akufen. No, il Jazz non è morto; si nasconde, per non farsi trovare da quei signori coi mocassini che lo cercano per strapazzarlo ancora: mi raccomando non glielo dite.