Cultura, ma non sempre

Qualche tempo fa ho tentato di comprare un file Mp3 da Amazon – senza successo. Allora gli ho scritto: come mai i residenti in UK possono comprarli, mentre gli altri no? Non eravamo globalizzati? La risposta di Amazon è inequivocabile: “Solo i clienti che operano dal Regno Unito possono comprare Mp3. Per accedere a quel servizio bisogna avere un indirizzo IP britannico.” Insomma no, salvo a essere residenti là. Poi, riflettendoci, mi sono dato l’unica risposta possibile: evidentemente Amazon ha chiuso accordi con le locali associazioni dell’industria musicale (come la micidiale RIAA americana), nonché con le società di autori, ma non con la FIMI (la super-micidiale RIAA italiana) o la SIAE. Quindi, mentre gli europei britannici possono accedere al comodo e fornitissimo Mp3 shop di Amazon, a noi altri ci rimane soltanto l’antipatico (almeno a me) ITunes music store.

Sono almeno 10 anni che si discute su questa vicenda, e devo dire che più passa il tempo meno la capisco. Napster (la prima piattaforma, illegale, che consentiva lo scambio di file) all’epoca della sua chiusura aveva dimostrato chiaramente un concetto: tutta la musica dev’essere disponibile su Internet, in un modo che sia più semplice e veloce del Peer to peer. Solo così il mercato dei file può competere con il libero scambio. Qualche tempo dopo Apple si inventò l’ITunes music store, e convinse l’industria a scommettere su questo sistema grazie a un meccanismo di protezione digitale dei file che ne impediva la copia. Non mi dilungo qui a infamare questo sistema: ci ha già pensato la Apple, abolendolo di recente. Vorrei però mettere a fuoco alcuni punti.

Innanzitutto la scarsa comprensione dei meccanismi di diffusione della musica Pop da parte di tutti gli interessati. Io ho scoperto i Pink Floyd nel ’72 grazie a una cassetta registrata illegalmente da un amico. Nel corso degli anni poi, non solo ho comperato diversi loro album ma, negli anni ’80, ne ho ricomperati almeno tre su CD. La domanda sorge spontanea: cosa dovrebbe fare al mio amico la casa discografica dei Floyd? Dovrebbe fargli causa, o un monumento? La musica si diffonde soprattutto così – allora come oggi. Impedirne la copia significa non solo trattare tutti gli utenti come criminali (e sottrarre loro alcuni semplici diritti, come farsi delle compilation da macchina), ma anche segare le gambe al meccanismo promozionale più efficiente che la musica Pop conosca: il passaparola, e il passa-musica.

Inoltre ci sono due aspetti di questa vicenda che continuo a trovare incredibili: i testi e le copertine. Com’è noto i testi delle canzoni sono protetti dal diritto d’autore. Quindi siti come azlyrics.com, che offrono testi gratis, in teoria sarebbero fuorilegge. In pratica invece sono tollerati dall’industria, che ha di fatto rinunciato a tutelare qualcosa che non solo le appartiene, ma che dovrebbe essere considerata cultura (non dimenticate che la FIMI chiede da anni a gran voce l’IVA al 4% considerandosi un’industria culturale). Il risultato è sconfortante: se cerco in rete il testo di “Masters of war” di Bob Dylan (uno degli apici della cultura Pop del ‘900) mi ritrovo in un sito pieno di banner, che mi offre suonerie di Bob Dylan e che in fondo al testo sbagliato mette la dicitura: “Se trovi degli errori segnalaceli!” Ma come: non eravate un’industria culturale? Come mai non proteggete (anche per noi) questo patrimonio? Idem per le copertine: perché, per trovarne una copia digitale accettabile, devo andare su un blog coreano? Non ho già pagato abbastanza un CD per avere diritto a questo servizio? Ma la musica non era cultura, e così anche le copertine (su cui sono stati scritti infiniti libri)?

Insomma: saluto con piacere l’abolizione della protezione dai file di ITunes. Saluterò però con vieppiù piacere, semmai si verificasse, la scomparsa di uno dei tratti più caratteristici dell’industria musicale: la sconfinata (e colpevole) miopia.

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