45 anni, e non sentirli

Una delle cose belle che un giornale di musica può fare è raccontare delle storie. Storie di musica, di dischi, di concerti e di persone. L’ultimo album di Fatboy Slim, Palookaville, offre lo spunto per raccontare l’epica vicenda di una canzone famosissima, che certamente avete sentito tutti: Jingo. Una storia avventurosa che si dipana tra quattro continenti e ben sei decadi spostandosi in universi molto lontani.

C’era una volta Babatunde Olatunji, nato nel 1927 in Nigeria, che a 23 anni si becca una borsa di studio e va negli USA a studiare Scienze Politiche. Cosa fa Baba per mantenersi? Impara a suonare il tamburo. Nel ’56 è già noto e nel 1959 pubblica “Drums of Passion”. Il successo è immediato, e il contagioso drumming Yoruba (l’album, assai tradizionale, è sostanzialmente fatto di voci e percussioni) conquista il mondo. Ma è un successo colto e sofisticato (soprattutto tra i musicisti), e nessuno fa veramente caso alle enormi potenzialità pop di uno dei brani, “Gin-go-lo-ba”.

Avanti veloce di dieci anni: 1969. A Woodstock una delle band di maggior successo sono i Santana; poche settimane dopo esce il loro primo album (self titled) e dentro c’è una versione di “Gin-go-lo-ba”, che adesso si chiama Jingo. Dell’originale resta la linea melodica del cantato e l’atmosfera da danza estatica, il resto è Santana: percussioni, hammond e svisi di chitarra (leggermente scordata). Jingo è la vera hit dell’album (assieme a “Soul Sacrifice” che è nel film di Woodstock), ed è uno dei fattori fondamentali nella diffusione planetaria della pratica del Bongo, che tuttora attanaglia alcune aree del pianeta come Pistoia Blues. Quella sindrome, che Zappa definì “Bongo Fury”, viene anche e soprattutto da Jingo.

Altro salto secco: 1979. In pieno Disco boom l’etichetta Salsoul, specializzata in Latin Disco, pubblica la versione di Candido, leggendario percussionista nato all’Havana nel 1921 e (credo) tuttora attivo. La ricetta è semplice: il grido di guerra Yoruba stavolta è propulso dalla più micidiale macchina ritmica mai sentita: percussionisti cubani su ritmo disco. Il successo è immenso e planetario, e Jingo, già nella storia del rock, entra anche in quella della Dance – consacrando Babatunde Olatunji come l’africano più influente nella Storia della Musica.

Durante gli anni ’80 Jingo resta in circolazione costituendo, insieme alla ripugnante “Charlie Brown”, la dotazione base della selezione latin di molti Dj di provincia. Ma, a differenza del mio amico Charlie, Jingo ha dentro i semi del futuro. Alla fine degli anni ’80 nasce la musica House e molti Dj, tra cui Frankie Knuckles, anni dopo citeranno Jingo (nel frattempo remixata da Shep Pettibone e Todd Terry, tra gli altri) tra le loro influenze principali. Non solo, ma ce ne sono molte versioni bastard: è facilissimo mischiarla con cose diverse, e i campionamenti spuntano come i funghi.

Poi un mesetto fa esce Palookaville e, sorpresona, la 10 del CD si (ri)chiama Jin Go Lo Ba (e stavolta contiene un campionamento della versione originale). Fatboy come al solito non è che si distingua per signorilità, la sua versione è assai fracassona ma in effetti efficacissima: farebbe ballare anche le statue. Il grido di guerra diventa il rombo di Terminator e la trama percussiva un’industria pesante, ma gratta gratta sotto c’è sempre Babatunde. E non è come riparruccare Mambo n. 5: Jingo è rimasta sempre con noi, per ben 45 anni, rivivendo (verrebbe da dire venendo reinventata) ogni volta e restando sempre utile, come dimostra Palookaville.

Baba Olatunji è morto nel 2003. Forse a lui la versione di Fatboy Slim non sarebbe piaciuta, e magari non ne ha veramente apprezzata nessuna. Perché nell’originale, che pare registrata nel tinello di casa con quattro amici ed è meravigliosamente irregolare come poi nessuna, ci sono già tutti gli elementi che poi saranno esplorati nelle versioni successive e che genereranno mondi. Insomma c’era già tutto, nel 1959. E poi dicono che l’Africa sta indietro.

Se n’è andato Stefano degli Alma, D.Rad. Uno come lui non ce lo restituisce nessuno. Un abbraccio forte a chi rimane.