L’architettura virtuale della musica elettronica

(Testata: RadioLilliput)

Quando si parla di musica elettronica – quella di ultima generazione nata negli anni ’80 – le categorie dell’analisi musicale tradizionale servono a poco. Gli elementi costitutivi della musica sono ancora tutti presenti (quasi sempre), ma i loro ruoli sono talmente stravolti – e le strutture così profondamente diverse – che è facile perdersi. La melodia spesso non c’è, e quando c’è è breve, modale e contratta; lo sviluppo di 32 battute, comunissimo nella forma canzone, qui non si verifica mai: massimo 8, e sempre ripetute. Anche l’armonia è ridotta all’osso: uno, due accordi e molto raramente delle modulazioni. E’ invece fondamentale la ripetizione meccanica delle parti: non “ripeti da”, che può essere interpretato, ma “riascoltare la registrazione da”.  Quello che però caratterizza la musica elettronica (perfino quella colta) è l’attenzione verso gli altri due elementi fondativi della musica: ritmo e timbro.

Gli strumenti elettronici contemporanei nascono intorno alla Drum Machine, la Batteria Elettronica, il cui boom arriva con la musica post-disco dei primi anni ’80. Alla Drum Machine, inventata per sollevare i batteristi dalla ripetizione costante e senza variazioni della Disco music, si accoppia la Bassline, che produce una linea di basso – altro strumento “obbligato” nel genere. Poi, grazie allo standard Midi (Musical instruments digital interface) e ai sequencer (centraline che consentivano di programmare, pilotare e sincronizzare molte macchine diverse), ai primi due si affiancano tastiere, campionatori ed effetti (eco, distorsione, etc.): nasce lo studio Midi, che per la prima volta (nella storia della musica dalle origini ai giorni nostri) consente ad un’unica persona di comporre mentre ascolta, modificando in tempo reale le varie parti di un brano, e contemporaneamente di registrarlo e mixarlo. Questo procedimento di scrittura è rivoluzionario; basti pensare alle composizioni orchestrali, per cui tra scrittura e ascolto passano mesi o anni, o perfino al gruppo rock che deve registrarsi per potersi riascoltare. Qui invece un singolo può fare tutto insieme, e i risultati che nascono sono radicalmente diversi.

Si diceva del ritmo: quando negli anni ’80 furono introdotti massicciamente sul mercato gli strumenti elettronici, molti strumentisti pensarono di venire sostituiti con simulatori digitali; vittime di questa paura furono soprattutto i batteristi. E invece le principali vittime dell’elettronica sono stati altre categorie di strumentisti (come le sezioni archi) ma non loro. La ragione è molto interessante: il primissimo cambiamento stilistico indotto dalla diffusione delle nuove tecnologie infatti riguarda proprio il ritmo; con la drum machine si può scriverne uno anche assai complesso (magari solo parzialmente terzinato, o con molto shuffle – una tensione ritmica tipica del jazz), che la macchina ripete meccanicamente all’infinito. E questo stile si basa proprio sulla ripetizione meccanica. Quindi la scrittura effettiva si limita a una, due o al massimo quattro battute (dette Loop, anello, perché si ripetono, proprio come il circuito di Le Mans) densissime però di parti (batteria, basso, percussioni ed effetti, a cui spesso si aggiungono elementi melodici e armonici che svolgono una funzione ritmica), e la composizione (cioè la stesura di questi elementi sulla superficie della musica, che è il tempo) non è altro che il dosaggio, l’alternanza, l’ingresso e l’uscita dei vari elementi e lo svolgimento delle molte possibili combinazioni ed incastri di quelle poche misure. Non si tratta quindi di simulazione della scrittura tradizionale ma di una nuova concezione di composizione, adatta ad un ascolto interattivo com’è il ballo, e infatti derivata, per stesura e attenzione al ritmo, dalla musica africana e dalla disco.

Lo strumento che merita una menzione a parte è il Campionatore, un registratore digitale che rende disponibili i suoni registrati su una tastiera musicale; inventato negli anni ’80 per replicare strumenti (registro una nota di violino e poi lo suono su una tastiera), da sùbito gli utenti hanno iniziato a fare un uso radicalmente diverso (e spesso illecito): registrare piccoli frammenti di brani altrui, metterli in loop per costruirci sopra un’altra musica, totalmente originale. Questa tecnica, detta campionamento, ha raggiunto vette sublimi: il Campionatore è il solo strumento nato nel digitale che oggi abbia la stessa dignità (e richieda la stessa dedizione) dell’Oboe o del Contrabbasso.

Si diceva del timbro. Se si guarda la storia della musica occidentale, quello appena finito è certamente stato il secolo del timbro. Da Debussy a Schoemberg, dal Ragtime al Free Jazz, dal Futurismo all’invenzione del Moog, dall’elettrificazione delle chitarre all’invenzione del Campionatore… Quando negli anni ’80 si diffonde il nuovo modo di fare musica, questa ha da subito un suono preciso e diverso: è palesemente sintetica, ha bassi e alti esagerati (che suonano bene in discoteca), fa un largo uso di effetti (echi, distorsioni, etc.) non solo com’era stato fatto fino a quel momento, per addolcire il suono e renderlo più naturale. No: qui diventano parte integrante della scrittura. Una scrittura che, a differenza di quella tradizionale, non è fatta per essere rieseguita (come nel caso di una canzone di cui posso comprare lo spartito e fare la mia versione) ma soltanto riprodotta, poiché “l’opera” è la registrazione stessa (si può però rimixarla, e cioè ricomporre le varie parti – aggiungendone di nuove – a mio gusto, ma sempre utilizzando elementi audio originali).

Una musica quindi diversa, più di quanto si pensi di solito. Non è facile spiegarlo, ci provo paragonando musica e arti visive. Possiamo paragonare la musica tradizionale alla pittura: ci sono opere grandiose come la Cappella Sistina o Tetralogia Wagneriana, piccole perle incantevoli come Giorno e Notte di Escher o Caravan di Duke Ellington; quelle che rappresentano un sentire comune, come Guernica di Picasso o il Requiem di Mozart. Ce ne sono di più immediate come la Gioconda o il Bolero di Ravel, e quelle che invece richiedono più tempo, come le opere di Burri o di Stockhausen. E’ un buon paragone, quello tra pittura e musica: ambedue le forme infatti inducono a “ripetere l’esperienza”. Mi spiego: se leggo un bel libro, arrivato alla fine non ricomincio daccapo; magari lo rileggerò, ma non subito. Idem con un film; posso perfino riguardarne delle scene molte volte ma il numero di ripetizioni è limitato. Non così con la musica, né con la pittura: ne voglio sempre di più, e spesso la curva del piacere sale proprio con la familiarità e l’aspettativa.

Il paragone pittorico però vale solo per la musica tradizionale, quella occidentale pre-elettronica, che richiede attenzione e concentrazione e che, come la pittura, ha qualcosa in primo piano, un soggetto (la melodia) separato dallo sfondo (e nel caso dei quadri dal muro, con la cornice). La musica di cui sto parlando non assomiglia alla pittura, che si contempla da spettatori (magari rapiti ma sempre esterni, fuori dalla cornice), ma invece moltissimo ad un’altra importante arte: l’Architettura. In comune hanno molto: sono ambedue arti d’uso; una serve a ballare l’altra a esisterci dentro, o intorno. Fondamentale per entrambe è il ritmo, la ripetizione assolutamente identica. Tutte e due richiedono un tempo per essere apprezzate: in primo piano non c’è niente e l’effetto è dato da un alternarsi di elementi che contribuiscono a creare in noi uno stato. Per essere apprezzate a fondo, ambedue le forme devono essere utilizzate nel modo giusto: non ha senso ascoltare la musica house seduti in poltrona al buio, esattamente come non ne avrebbe fare un picnic in piazzale Loreto a Milano o mettere un disco di Anton Webern in discoteca.

In effetti il loop che si ripete definisce di uno spazio quasi fisico. Gli elementi del loop sapientemente alternati disegnano un luogo sonoro, esattamente come l’architettura, per definire uno spazio, utilizza alcuni elementi ripetuti o sottratti – come gli archi o le finestre – e molta sapienza sta nel dosaggio. Ambedue le forme, soprattutto nella loro versione più marcatamente d’uso (l’architettura funzionale da un lato e la dance dall’altro) producono il loro effetto nell’interazione con gli utenti. Ed ambedue tendono verso un uso che le separa enormemente dall'”arte”: sono fatte per essere comode e far stare bene, per fare si che chi le usa si senta a proprio agio, si lasci andare e le senta proprie, dando loro senso e usandole per lo scopo per il quale sono state create. In definitiva ambedue queste forme tendono a scomparire, mettendo al centro il fruitore: una casa esiste nell’interazione tra chi l’ha progettata e chi la abita; idem una piazza. Un brano di musica per ballare esiste nell’interazione tra chi l’ha prodotto e chi lo utilizzerà – ballando, facendo le pulizie o semplicemente arredandoci l’aria dello spazio in cui vive. Certo che poi si può tenere Mahler o Stravinski in sottofondo, ma ha poco senso: è musica che chiede di stare in primo piano. Erik Satie sognava un suono che si mimetizzasse col salotto (musica d’arredo). Forse siamo andati oltre, perché la musica, certa musica, nel frattempo è diventata lei stessa un posto (anche se raramente un salotto).

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