Sexy, sexy jeans

Specialmente nell’ultima decade, c’è stato un avvicinamento sempre più esplicito della moda all’universo visivo fetish. Da D&G a Versace, passando per Vivienne Westwood, Gaultier, Cavalli, tutti si sono in qualche modo esercitati sul confine tra fashion e feticismo. Le forme, i materiali, gli ammiccamenti più o meno espliciti ai vari fetish, leather e rubber su tutti ma non solo: le vetrine degli stilisti in certi casi si sono pericolosamente avvicinate a quelle dei sex shop. Con risultati a volte eclatanti, come le furibonde scarpe di Westwood o Galliano, o le poppe puntute di Gaultier, ma senza mai essere davvero fetish: il confine è sempre rimasto ben netto.

Esiste un solo caso, nella storia del costume, di capo d’abbigliamento firmato che abbia compiuto davvero il cross-over e, tra l’altro senza volerlo, sia diventato parte del dress code di una comunità sessuale. Lo trovi addosso a tutti, dal bancario al banchiere, ma è anche molto amato dal rock’n’roll (Springsteen non si farebbe mai sorprendere senza) e naturalmente dal cinema, luogo della sua prima consacrazione a icona. Sto naturalmente parlando dei jeans Levi’s 501, blu ma specialmente neri, con o senza risvolto.

La storia è nota: il tedesco Levi emigra negli USA dove produce pantaloni, e nel 1873 li dota di rivetti di rame nelle zone di maggiore stress, e poi di bottoni metallici: nascono i 501, che all’inizio sono pantaloni da da cow boy, robusti e comodi. Ma l’origine del mito Pop sta in un film del ’54, Il Selvaggio, nel quale Marlon Brando indossa una t-shirt, stivale con fibbia, 501 e chiodo: sono forse gli unici indumenti dell’epoca reperibili ancora oggi, perfettamente identici anche nei dettagli, quasi ovunque. Vestiti che poi sono stati bandiere della liberazione negli anni ’60 e ’70. Verrebbe da dire delle liberazioni: anche il punk, vent’anni dopo, ha remixato gli stessi ingredienti. Dentro i 501 si è davvero cambiato il mondo, da Bob Dylan a Joe Strummer, fino a Steve Jobs. Ovviamente poi sono arrivate molte altre marche, ma nessuna ha scatenato passioni morbose come i 501 – neppure altri modelli dello stesso brand.

Ma c’è di più. Negli anni ’80, con la definitiva emersione delle comunità Gay, è anche affiorata la cultura Queer, che una volta ne era la faccia oscura. Per Queer, tradizionalmente si intende tutto cio che è gay ma non canonico, quindi leather, BDSM, uniform, ecc. Esiste una rete di locali Queer (perfino in Italia, ma ovviamente molto di più in Nord Europa o negli States) dove spesso, per entrare, è richiesto di aderire a un dress code. Questo accade in qualsiasi festa fetish anche etero, e costituisce una discriminante decisiva: in giacca e cravatta, o in t-shirt, non si entra (salvo che siano di gomma). Le liste dei vestiti ammessi (o rigorosamente da non mettersi) a volte sono lunghissime, e contengono materiali (gomma, latex, cuoio, ecc.) o stili (uniform, full black, biker, ecc.) ma mai, che io sappia, una marca – ad eccezione dei Levi’s 501, spesso ammessi e a volte oggetto di party a tema.

Tant’è che Levi’s è diventato il nome di un fetish, e ci sono club (spesso molto Queer) che fanno esplicito riferimento proprio alla marca, come il sito Leatherlevi.com (che organizza il Leather Levi weekend proprio a San Francisco) o il bar 501 Eagle di Indianapolis, “the first and only Gay/Leather/Levi and Masochist Bar in the Indianapolis area”. MI sono spesso chiesto cosa pensino alla Levi’s di questa storia; posso capire da un lato un certo imbarazzo nel vedere il nome dell’azienda associato a certe situazioni. Ma è il prezzo che si paga per uno status che davvero non ha prezzo nel XXI secolo. Tra tutti gli stilisti, alcuni dei quali darebbero un braccio per avere la stessa visibilità, è buffo pensare che la palma sia andata proprio al signor Levi, ma al fetish, come al cuor, proprio non si comanda.

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