Il Rumore del futuro

A chi piace la pubblicità? Quasi a nessuno, tranne ai pubblicitari che godono nel persuadere i loro simili a consumare porcherie. Nella migliore delle ipotesi la consideriamo un male necessario, il prezzo che ci tocca pagare per guardare film in tv, pagare un po’ meno tasse comunali, o leggere il giornale online. Oggi però, almeno su internet, abbiamo un’alternativa: gli Ad-blocker, programmi che eliminano la pubblicità. La rete è stracolma di immondizia: pop-up, banner, video che si avviano da soli, cookie infami che ci mandano messaggi ricavati dalle nostre ricerche (tracking), e via dicendo. Da alcune di queste nefandezze già ci difende il browser, che può bloccare i pop-up, non accettare cookie malvagi e prevenire il tracking. La tecnologia Ad-blocker però è diversa: non si vede proprio più nessuna pubblicità – niente.

Qualche settimana fa ho installato uno di questi software, e devo confessare di aver goduto molto: il web senza réclame è meraviglioso, la grafica è più bella (i banner sono davvero ripugnanti, maledetto chi li fa così), le pagine sono più leggibili, e hai la certezza che il tuo computer non si metta a gridare “Passa a Vodafone!” mentre stai leggendo un articolo. Inoltre, almeno all’inizio, nessun sito sembrava registrare la presenza del mio blocker. Vedevo tutto come gli altri, ma senza réclame. Poi una mattina, sul sito internazionale del Guardian, mi compare un educatissimo messaggio: “Abbiamo notato che usi un Ad-blocker. Forse ti piacerebbe supportarci in un altro modo? Puoi diventare sostenitore a partire da 5€.” Dopodiché, la mia pagina è cambiata: le notizie sono rimaste ma le opinioni, e gli articoli più lunghi, sono scomparsi.

Molto interessante, anche se non è il primo caso: tutti i grandi quotidiani hanno delle strategie, benché diverse. Repubblica.it spesso rimanda a articoli presenti solo sul giornale a pagamento (cartaceo o digitale). Il New York Times, e la rivista New Yorker, consentono l’accesso gratuito a un numero limitato di articoli al mese. Il sito del Corriere è solo un surrogato della versione di carta. Non solo, ma la stragrande maggioranza delle testate giornalistiche, inclusa Rumore, sta cercando di capire quale potrebbe essere la strategia giusta per passare interamente al digitale, mantenendo però la propria natura.

Oggi viviamo in un mondo in transito, da un modello dove i contenuti avevano un costo (perlopiù pagato dall’utente finale), a uno, quello digitale, nel quale niente sembra costare. La realtà però è diversa: il sito del Guardian è gratis? No, e il loro cortese messaggio lo dice chiaramente. A guardarci bene, nessuno dei “servizi gratuiti” che usiamo ogni giorno lo è. Paghiamo con altra moneta: i nostri dati (che valgono letteralmente oro), e guardando la réclame. L’alternativa è sborsare denaro: Spotify ha la pubblicità, ma non nella versione a pagamento.

Quindi credo che tutti noi, come utenti, dovremmo farci una domanda: come preferiamo pagare le informazioni, la musica e l’intrattenimento? Le opzioni, oggi, mi sembrano chiare. Possiamo scambiare i nostri dati personali con dei servizi, e cioè il modello Facebook/Google/Youtube – che non prevedono affatto un’opzione a pagamento. Oppure possiamo guardare la réclame in cambio di un accesso minimo alle informazioni, come fanno Repubblica.it e il sito del Guardian. L’alternativa è pagare, non vedere affatto la pubblicità e leggere articoli più lunghi, o assai costosi da realizzare (ci sono reportage che richiedono mesi di ricerche). Lo stesso vale per la musica, i film e qualsiasi altro contenuto che abbia un costo di realizzazione. Questo è un concetto che ormai dovremmo aver capito: non tutti i contenuti sono uguali. E ce ne sono alcuni, per esempio l’informazione indipendente o la musica ben fatta, che probabilmente ci conviene sostenere. L’alternativa è di ritrovarci solamente con musica adatta alla pubblicità, e informazioni sponsorizzate. Un mondo magari gratuito, ma davvero infame.

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