Corpo del suono

A volte, parlando con colleghi (spesso più giovani) che fanno musica col computer come me, mi rendo conto che suonare uno strumento è un elemento essenziale del mio essere autore musicale, benché in realtà questo strumento (la chitarra) lo utilizzi molto raramente nei mie brani. La differenza non sta tanto nei risultati quanto nel metodo: molto spesso la mia musica nasce da un’esecuzione, una improvvisazione (che può anche consistere nello sfregare dei cavi collegati al mixer, producendo dei graziosi ronzii), insomma da un gesto, una serie di movimenti, un fatto dapprima fisico, corporeo e poi sonoro.

Il suono è sempre stato gesto, e il suono senza gesto era storicamente considerato una stranezza, se non direttamente un sortilegio del demonio. E’ con la radio e il grammofono che le due cose diventano indipendenti, e si può ascoltare della musica senza vederne l’atto dell’esecuzione. Si può, lo facciamo in molti ogni giorno, spesso è fantastico ma non paragonabile all’esperienza delle due cose insieme, cioè il concerto. Non credo sia casuale che nei concerti Pop come in quelli di Classica i gesti siano così enfatizzati e, per chi sa guardare, l’osservazione del direttore d’orchestra – che parla un linguaggio di gesti musicali – è un complemento molto importante all’esperienza musicale.

Tra le massime bestemmie dei cultori del Pop c’è il Playback, del quale spesso in Tv si enfatizza l’assenza. Aldilà delle ovvie (ma spesso sacrosante) considerazioni sull’incapacità di certi cantanti di eseguire dal vivo le loro canzoni, l’oltraggio del Playback secondo me sta proprio nella dissociazione tra suono e gesto: in fondo la star c’è, si muove e balla, anche meglio perché non deve cantare; ma proprio il fatto che non lo faccia abbassa molto la temperatura emotiva della performance. Il palco (e per estensione lo studio televisivo) esiste proprio per (ri)congiungere questi due elementi, e non farlo è considerato un peccato mortale.

Uno dei metodi coi quali ho imparato a suonare è stato copiando le posizioni e i gesti che vedevo fare a quelli più bravi (e nei rari spezzoni video in cui potevo osservare le mani dei grandi). Non copiandone le melodie (che pure ho fatto, ovviamente) ma proprio mimando il comportamento di torso, braccia, mani e dita. Oggi capisco che non era vanità (o, come diceva mia madre, “fanatismo”), ma l’intuizione che nel gesto c’è il suono, e che questo viene innanzitutto dal corpo. Una volta che il gesto è giusto il suono lo seguirà. Naturalmente facendo musica coi PC questo aspetto è quasi completamente assente. L’interfaccia più diffusa resta la tastiera pianistica, che però pochissimi sanno davvero usare: è uno strumento di input, una serie di pulsanti pesati coi quali inserire degli eventi che a volte sono note, ma più spesso invece sono frammenti di musica, colpi di batteria, ecc.

Ecco come mai mi sono così cari i DJ, specialmente quelli Hip hop. Non solo la loro è una cultura molto contemporanea, basata sulla conoscenza e il riciclaggio di elementi del passato, ma per loro il gesto è essenziale tanto quanto per un batterista. E esattamente come per la batteria nello scorso secolo, negli ultimi 30 anni si è studiato a fondo il giradischi come “strumento delle musiche”, capace di suonare dischi ma anche di essere suonato – come un bongo o un violino. I DJ sono virtuosi (come certi violinisti del ‘700), competitivi (come i trombettisti degli anni ’20) e iper-tecnici, quasi quanto i sassofonisti di Bebop. E’ grazie al Turntablism che nella musica contemporanea sopravvive il gesto, in attesa che la ricerca ci proponga delle interfacce più attraenti e sensate che possano riportare il corpo nella produzione di musica. Qualcuna ce n’è, ancora non ci siamo, ma il bisogno è urgente: vedere dal vivo certe band elettroniche mentre girano pomelli o premono tasti con sentimento, un pochino intristisce.

Foto: DJ Gruff, uno dei pionieri e innovatori italiani del genere

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