Prima di Obama

Non si può non pensare a Barak Obama con commozione, a pochi giorni dalla sua nomina a presidente degli Stati Uniti. L’occasione è storica, era davvero difficilmente prevedibile (anche se si è sempre detto che prima o poi sarebbe successo) e apre la strada a un grande cambiamento. Naturalmente, per un giornale di musica, l’occasione è decuplicata: sappiamo tutti del contributo degli USA alla cultura musicale mondiale nel secolo scorso, e in particolare di quello degli afro-americani. Senza il blues, o il jazz, la musica sarebbe profondamente diversa – anche la nostra. Il contributo americano alla cultura Pop contemporanea è incalcolabile: sono stati certamente i più fecondi. Prendete il ritmo, per esempio: lo swing, che ha dominato il movimento delle gambe per quasi 50 anni, sembrerebbe essere il frutto, tutto americano, dell’incontro tra certi ritmi africani e altri irlandesi. Quel ritmo che poi James Brown trasforma in funk, spostando l’accento sull’uno della misura – The One, come lo chiamava lui – inventando così la musica moderna. O il bluegrass, che noi siamo abituati a identificare coi bianchi del sud, mentre si suona col banjo, uno strumento di derivazione assai africana. O tutto l’universo afro-futurista elettronico, da George Clinton a Sun Ra passando per gli Invisible Skratch Picklez, che si impossessa dell’elettronica e ne svela la natura tribale. Non ce n’è: nella mescola della musica americana, il contributo dei neri è stato davvero importante, secondo solo al contributo della musica americana a quella mondiale. In fondo è una delle cose che ci sorprendono dell’America, anche in negativo: io chiedo sempre a tutti gli americani se nella loro città c’è una via intitolata a Duke Ellington, o a Jimi Hendrix, e mi scandalizzo un po’ quando mi dicono di no (quasi sempre).

Perché se è vero che Obama ha raggiunto un enorme traguardo simbolico che ci fa sognare tutti un mondo migliore, non è il primo afro-americano a farlo. Anzi, la lista degli inspirational black men è assai lunga. Inizierei da Robert Johnson, che si dice vendette l’anima al diavolo per far suonare una chitarra come fossero due (e basta ascoltarlo per accertarsene), per poi citare Satchmo, il grandissimo Louis Armstrong che ridendo e scherzando, com’era nella sua natura, ha inventato il jazz moderno. Come dimenticare Little Richard e Chuck Berry, che hanno mostrato al mondo una via alla liberazione, del corpo e della mente? E poi Lester Young e Marvin Gaye, due presidenti nel loro genere. Luther KIng e Malcolm X, l’infinito MIles Davis e Hendrix, quello che dopo di lui niente è mai più stato come prima. Charlie Parker, Mahalia Jackson, Bill Withers, Grandmaster Flash… La lista è lunghissima, e ognuno di noi ha la sua personale hit parade. Fatta di afro-americani che, come dice Cornel West, hanno saputo affermare: “Di fronte alla mostruosità, io ho l’eleganza, lo stile e la dignità di mostrarti che la tua mancanza di rispetto non mi schiaccia: la prendo e la trasformo in genio artistico.” Gente che partiva da meno cento, e che è riuscita a cambiare il mondo, letteralmente.

Che Obama stia diventando presidente è un fatto storico, e portentoso. So che ci sono mille motivi per cui questo è successo. E so che uno di questi motivi, uno importante, ha a che vedere con la musica, e la cultura che si accompagna con la musica. E insieme a Obama, non dietro, vedo tutte queste persone. Nessuna delle quali è stata a Harvard, e in molti casi non è stata nemmeno a scuola. Che non poteva bere alle fontanelle o sedersi dove gli pareva sull’autobus. E che però, se non avesse fatto quello che ha fatto, non solo la mia vita sarebbe diversa, ma molte cose non esisterebbero. Come il 90% delle cose che trovate nelle pagine che seguono, e il 99% di quelle che state ascoltando alla radio (o nello stereo) mentre leggete. Yes, we can. And they did.

(si ringrazia Luca Celada)

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