Secondo tempo

La vecchiaia: ecco una condizione che il Rock’n’roll non aveva considerato, almeno all’inizio: “Non mi ci vedo a fare questo a trent’anni”, dichiarava Mick Jagger nel 1970 quando ne aveva 27. L’intera mitologia della cultura pop ruotava proprio intorno all’idea di gioventù: essere giovani, comunicare coi propri coetanei e raccontargli stati d’animo, paure e speranze – tutte cose legate a un’idea romantica di gioventù. Col tempo poi arriva il folklore sugli inizi: la povertà, i tentativi di emergere, i demo, il primo album (per molti sempre il migliore), le canzoni scritte in condizioni estreme, sottoscala fetenti, furgoni impossibili, mangiando cibo per cani vestiti di stracci (sempre però supercool). Un’epica tuttora assai in voga benché la storia abbia dimostrato proprio il contrario. Anche solo per stare agli Stones, nel ’72 esce il loro dodicesimo album, Exile on Main Street, da molti considerato un capolavoro e sicuramente un disco che a vent’anni non avrebbero fatto. Chiamarlo album della maturità fa un po’ ridere, però è sicuramente adulto, come il White Album o Quadrophenia: dischi di trentenni benestanti.

Guardando indietro questo è uno degli aspetti più sorprendenti della storia della Popular music: gli artisti longevi, quelli che hanno saputo restare rilevanti per molti anni, spesso hanno prodotto dei capolavori anche nella seconda parte della loro carriera. Gli esempi sono molti in una gran varietà di generi musicali, dal Country all’Indie fino al Jazz: gli ultimi dischi di Gil Evans (pianista e arrangiatore) sono capolavori assoluti di un artista evidentemente, manifestamente anziano. Ma è nella canzone d’autore che il procedimento diventa leggibile, letteralmente. L’esempio insuperabile mi pare Bob Dylan, la cui discografia riflette benissimo le varie fasi della sua vita, e le cui canzoni della maturità hanno uno sguardo da vecchio, dei punti di vista che in bocca a un ventenne suonerebbero falsi. È il solito problema del cantare il Blues, genere che infatti sfugge alla regola della gioventù: una voce antica suggerisce esperienza, che insieme all’intonazione è l’ingrediente essenziale di quella musica. Se non ci sei passato davvero come John Lee Hooker, non puoi cantare Seven Days and Seven Nights con la stessa credibilità. Certo, se il cantante è bravo può recitare una parte: la frase “I was born in a crossfire hurricane” (che apre Jumpin’ Jack Flash) è credibile, anche se notoriamente Mick Jagger è nato in tutte altre circostanze. Ma ascoltando I Am the Blues cantata da Muddy Waters a quasi 60 anni, non si fa fatica a credergli anche proprio per via dell’età. Con alcune eccezioni: Janis Joplin o Joni Mitchell per esempio, in maniere diverse hanno ambedue saputo trascendere la propria età, come autrici e come interpreti. Ma sono appunto eccezioni. Viceversa la maggior parte delle popstar moderne adotta la strategia opposta: continua a scrivere le stesse canzoni di quando aveva vent’anni sottoponendosi a pratiche estreme per continuare a avere anche lo stesso aspetto, la stessa flessibilità e la stessa voce. L’esempio finale è Madonna, ma anche nella musica italiana ce ne sono molti e molte. Un destino difficile, una battaglia persa ma spesso inevitabile: se hai fatto una hit bella grossa nel ’71 e poi basta, sei condannato a ripeterla all’infinito, stessi vestiti, stessi capelli, purtroppo spesso con arrangiamenti nuovi e inevitabilmente maranza.

C’è poi un’altra leggenda relativa agli esordi, una diceria che ho sempre trovato buffa. Quando sei giovane e povero avresti tante cose delle quali scrivere, ispirate dalla combinazione gioventù + povertà. Poi hai successo e il tuo problema principale diventa che ti si intasa lo scarico della piscina, cosa della quale magari ti lamenti coi vicini ma su cui scrivere una canzone di protesta forse sarebbe esagerato. Un’idea curiosa, basata sulla convinzione che le difficoltà materiali siano portatrici di canzoni. Mentre la storia della musica Pop ci dice un’altra cosa: che all’inizio si è giovani e pieni di certezze (anche negative), e la musica spesso lo riflette. Poi si cresce, talvolta molto velocemente, e arrivano i dubbi, le crepe, le domandone – ma anche l’esperienza, la perizia nella scrittura e la capacità di sintesi. La bravura di un autore è quella di guardarsi dentro e restituire i propri stati d’animo a chi ascolta. Invecchiando molto spesso si esplora la profondità, luogo labirintico e misterioso che scatena pensieri potenti – come sanno benissimo i fan di Bowie, quelli di Tom Waits, De André o Nick Cave.

Quindi certo, prima sei giovane e estremo, live fast die young. Ma se poi non muori, e sei pure bravo e fortunato, magari invecchi bene. E puoi produrre musica adatta anche a un pubblico di tuoi coetanei (ma non solo, anzi mi pare di aver capito che la vecchiaia non respinga più i giovani, com’era una volta), magari stanchi di battersi per il loro diritto alla bisboccia ma che invece talvolta contengono moltitudini.

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