La nostra nascente coscienza ecologica e la presa d’atto della possibile, forse imminente catastrofe ambientale, ci costringe a ripensare alle nostre abitudini e condiziona i nostri consumi. Mi pare un bel passo avanti: per secoli abbiamo utilizzato le risorse ambientali come se fossero infinite (un caso esemplare sono state le balene portate sull’orlo dell’estinzione: il loro grasso veniva perfino usato per l’illuminazione, un’idea folle e sconsiderata), mentre oggi alcune cose le abbiamo capite. La strada è ancora lunga ma mi pare che la direzione sia quella giusta. Se n’è accorta perfino la pubblicità: ormai da diversi anni il claim “Lava più bianco” è stato sostituito da “Non nuoce all’ambiente”, segno evidente che noi consumatori siamo sensibili all’argomento. Sembra un’ottima notizia. Ovviamente oltre a consumare meglio dovremmo anche consumare meno ma questo è un passaggio più complesso, più delicato: per secoli l’idea di progresso è stata anche legata alla quantità dei consumi, delle merci disponibili. Il supermercato migliore è quello con più prodotti.
Consumare meno è più difficile perché prevede un cambiamento nei nostri consumi, nelle nostre abitudini. Uno scoglio arduo da superare: è più facile cambiare detersivo che lavare i piatti (i panni o i propri denti) usando meno acqua. Sostituire l’automobile con una meno inquinante è più semplice che decidere di andare a piedi e usare i mezzi pubblici, o leggere attentamente le etichette dei prodotti per capire da dove arrivano. Riflettendoci è chiaro che questa nuova coscienza ambientale è un territorio inesplorato: mai in passato l’umanità si è posta il problema delle risorse come oggi. Se lo pone la politica, l’industria, la società, l’arte, la cultura e la filosofia. È un aspetto centrale della cultura contemporanea (malgrado l’ottusità di alcuni dinosauri negazionisti), un argomento con implicazioni infinite che potenzialmente riguardano la quasi totalità delle attività umane – con alcuni risvolti profondi e una messa a punto lunga e complicata.
L’animalismo è un buon esempio: “Basta con gli animali usati per divertire: hanno una loro dignità e dei diritti” pare uno slogan interamente condivisibile. Curiosamente però l’internet è piena di gattini buffi, quando propongo di correre il Palio di Siena in motorino mi insultano: perfino l’equitazione è uno sport olimpico. Come dite? Il cavallo si diverte a saltare gli ostacoli? Anche io se stessi in galera mi divertirei a intrecciare ceste di vimini, ma potendo scegliere preferisco fare tutt’altro. Quindi circo equestre no, gattino si, motorino no, olimpiadi sì, morte al Foie gras, orsi liberi. Mi pare che siamo ancora in mezzo al guado.
Non è l’unico. Mi piace leggere e negli anni ho accumulato alcune decine di metri lineari di libri che prendono polvere, si nascondono, si perdono e ogni volta che cambio casa viaggiano in camion. Però sono “i miei libri”, una cosa preziosa, parte della mia storia, oggetti sublimi oltre che contenitori di idee. Molti sono saggi, spesso sottolineati. Se voglio ritrovare una frase devo cercare il libro, sfogliarlo velocemente e leggere tutte quelle evidenziate. Da circa 15 anni per il mio lavoro (che consiste anche nel leggere molto) ho iniziato a usare libri digitali, che hanno alcuni vantaggi: nel tablet al momento ne ho circa 3.000 che, essendo privi di peso, mi porto tutti sempre dietro ovunque vada. Posso saltare facilmente da un libro all’altro e se sottolineo una frase la ritrovo immediatamente: poi posso anche copiarla, salvarla, spedirla a mia nonna, mostrarla ai miei studenti o incollarla in un articolo (tra virgolette, citando l’autore). Il mio guado culturale insuperabile è che se il libro mi piace spesso poi lo compro anche di carta, e magari con l’occasione lo rileggo. Eppure le parole sono parole, la carta è solo il supporto, Il Barone Rampante scolpito su lapidi sarebbe scomodissimo da leggere ma pur sempre un capolavoro. Certo, i libri su uno scaffale posso guardarli e scorrerne i titoli ma alla fine diventano arredamento, magari buoni per fare colpo, ottimi per l’acustica di una stanza ma forse potrei vivere senza.
Anche la musica è stata nell’aria per millenni. Poi negli ultimi 120 anni è diventata un oggetto, talvolta sublime pure lui. Mi ricordo quando, dopo aver risparmiato qualche mese, sono tornato a casa col mio primo box set, Concert for Bangladesh, (originale inglese, credo), 3 vinili più booklet in un lussuoso scatolo di cartone pregiato che odorava di coolness. Certo, lo streaming e i file musicali odorano di tutto ma non di coolness, infatti se un disco mi piace tendo a comperare pure lui – quando esiste. Però inevitabilmente mi interrogo. Sul vinile, sui libri, le moto a benzina, il palio, il rally, il motocross e molto altro: cosa ne penseranno i bisnipoti dei miei nipoti? Farà loro lo stesso effetto che fa a me scoprire che nell’800 l’olio di balena veniva usato come combustibile per l’illuminazione domestica?
* Titolo rubato a un libro di Michel Foucault del 1966
In realtà c’è stato un periodo in cui abbiamo avuto contezza della quantità limitata di risorse: al medioevo risalgono le prime riforestazioni, dopo esserci resi conto che consumavamo troppo più legname di quanto la natura potesse garantire. Inoltre abbiamo avuto esperienza di estinzione di alcune specie animali, a cui abbiamo provato a mettere una pezza con fortune alterne.
Per quanto riguarda i supporti fisici, io sono entrato nell’ottica che siano nient’altro che feticci, e forse proprio per questo li rimpiangiamo. Credo sia un meccanismo psicologico simile all’oggetto transizionale (la classica coperta di Linus, per intenderci). L’avanzamento tecnologico corre più velocemente rispetto all’evoluzione della psiche umana, da qui lo straniamento che proviamo verso ciò che è immateriale.