Mi pare di grande interesse l’attuale dibattito tra destra e destra su immigrazione e cittadinanza italiana. Archiviata la furibonda proposta della Lega sulla cassa integrazione agli immigrati (dargliene solo la metà, benché contribuenti), resta sul tavolo il nocciolo della questione: il diritto di cittadinanza. C’è chi dice cinque anni, chi dieci. Chi sostiene che i nati qui dovrebbero averla di diritto (e io, scemo, che pensavo che fosse già così), e chi dice che si dovrebbe almeno completare la scuola dell’obbligo. Poi naturalmente ci sono le condizioni: non aver mai mai avuto alcun genere di grana legale, aver sempre avuto un lavoro stabile, non aver mai protestato per niente, conoscere l’italiano… Proposte impensabili prodotte da una logica malvagia, a mio modo di vedere, salvo a volerle applicare a tutti quanti – il che potrebbe essere divertente: togliere la cittadinanza a chi non fa il bravo, a chi è disoccupato o a chi non conosce i congiuntivi.
E’ chiaro che bisogna trovare un principio, una regola, e io non saprei dire quale al momento. So però che ne vorrei una che consenta a dei futuri Pierpaolo Pasolini, William Burroughs, Vasco Rossi o anche semplicemente un operaio immigrato che occupa la fabbrica (o i molti politici di ambedue le parti che da giovani erano teste calde) di diventare un giorno miei concittadini: ne sarei assai più fiero, e li sentirei molto più fratelli, che certe macedonie di lineamenti ottusi, evidentemente frutto di endogamia, che oggi rappresentano (e secondo loro difendono) l’italianità – perfino in Europa.