Escono in contemporanea su Netflix due documentari simili eppure radicalmente diversi. Beckham (la storia del calciatore inglese in 4 puntate) e Vasco Rossi: Il supervissuto (5 puntate). Le coincidenze: personaggi molto visibili (in gradi diversi ovviamente), entrambi molto narcisisti e oggetto della curiosità popolare, ritratti nel proprio ambiente naturale, casa Beckham e case Rossi (al plurale perché Vasco ci mostra anche la sua residenza Losangelina). Le similitudini però finiscono qui. Beckham è evidentemente il frutto di un match (creativo ma non solo) tra i protagonisti (David e signora, la ex Spice Girl Victoria) e gli agguerritissimi autori, determinati a costruire un oggetto complesso che restituisse (anche grazie a sguardi, espressioni e sapiente regia) la complessità di una star mondiale che pulisce ossessivamente i fornelli, si prepara in anticipo il guardaroba della settimana e cura l’orto. Si ride, si piange (soprattutto loro), si parla di tradimenti (non senza pathos) e una parata di star (non necessariamente amiche) conferma o smentisce. Il documentario mi è sembrato così buono che l’ho visto tutto pur non essendo interessato al calcio e solo modestamente alle Spice Girls.
Quello su Vasco mi interessava molto di più: non solo ha scritto alcune delle canzoni più efficaci dal dopoguerra a oggi, ma è un personaggio centrale della cultura pop italiana. Purtroppo però fin dall’inizio si ha l’impressione che l’autore del documentario sia Vasco medesimo (il quale rivendica come una sua idea perfino il sottotitolo) che si loda, si mitologizza, si vanta di essere Rock (stile Celentano), ci mostra la finestrella da cui vedeva l’ispiratrice di Alba Chiara, ci racconta la vita spericolata (non più spericolata di altre, va detto), quanto ha imparato in galera, che gli amici possono essere infidi (“Perdono ma non dimentico”), che ha scritto “il primo rap” e la famiglia è tutto. Confermano entusiasti tutti i convocati: gli amici della parrocchietta, la moglie, i figli sparsi, il manager – insomma i miracolati (e quasi nessun altro). Alla fine, dopo oltre 200 minuti, qualcuno chiede alla moglie il peggior difetto di Vasco: “Non sopporta di essere contraddetto”. I tradimenti (con prole) tutti felicemente accettati, la droga fa male, il rock è fico, Massimo Riva stava bene sul palco ma lo tenevamo basso, talvolta spento. Nessuna ombra, nessuna nevrosi, nessun difetto: un santino a puntate. Consigliatissimo a amici e parenti del Blasco, magari potrebbe piacere anche ai fan – ma solo ai più ossessivi, che gli altri già sanno.