Ecco un altro capitolo di “Archeologia Sperimentale”, il libro che sto scrivendo ormai da diversi anni, un oggetto curioso (un’amica mi ha suggerito il termine Auto-Fiction) che abbisogna di un paio di precisazioni. Niente di quello che leggerete è completamente vero né falso. I personaggi sono costruiti assemblando parti di persone diverse che ho incontrato in momenti distanti della mia vita, e in nessun caso sono riconducibili a singoli individui realmente esistiti. Idem le situazioni e storie, magari realmente accadute a me o a altri, a cui però sono sempre aggiunti uno o più livelli di invenzione. Se vi piace, il primo capitolo che ho pubblicato lo trovate qui. Buona lettura.
Gli arancioni, i seguaci di Osho, hanno un posto in campagna qui vicino. Pinza c’è stato una volta, dice che è bello, si mangia gratis, è pieno di straniere. Ovviamente gli arancioni li avevo visti già in giro tutti felici e sorridenti, che ramazzavano adepti offrendo pasticcini e decantando la bellezza di Bhagwan, che è sempre Osho, col barbone d’ordinanza e la faccia furbetta: sarà che ho fatto il chierichetto da bambino ma mi fido poco dei religiosi in generale. Però cibo gratis e straniere sono un richiamo irresistibile quindi si parte. Siamo io, Alvi, Piana e Borraccio, una sorta di barbone hippy spagnolo conosciuto per strada. Ha una decina d’anni più di noi e possiede una panetta di libanese. Se hai una panetta di libanese, il mondo è tuo amico perfino se sei uno spagnolo quasi trentenne puzzolente e maleducato. Giro di canne in macchina e via, verso le campagne, gli arancioni, le straniere.
La tenuta è in uno di quei posti dove perfino la natura si inchina davanti all’opulenza: colline ondulate, paeselli ridenti, vallette gioconde e uccellini coreografici. Quelle zone dove, forse per rispetto ai redditi faraonici, non ci sono nemmeno le zanzare. In mezzo a queste verdi valli c’è il posto degli arancioni, baciato dal sole manco fosse una réclame. Molliamo la macchina e proseguiamo a piedi in un vialetto nel bosco: cicale, venticello, profumi – tutto perfetto. Ci vengono incontro due arancioni che sembrano dipinti. Lui alto, bello, bruno, con barbetta, capello lungo al vento e piedi nudi. Lei bionda, piccola e curvilinea, con dei capezzoli lunghi e puntuti che tendono la sua camicina di garza indiana bordeaux; sorridono, ci baciano uno a uno, incluso l’odoroso e incredulo Borraccio, e ci danno il benvenuto. Ci avviamo verso un gruppo di casali in una radura. Altri arancioni ci salutano sorridenti: sono tutti belli, hanno denti perfetti e capelli vaporosi. Nessuno è grasso, zero gambe storte: che posto è questo? Borraccio non sembra aver notato nulla. Saluta tutti, si piazza al centro del cortile e inizia a assemblare il suo immenso Bong portatile, un congegno di vetro in quattro parti con custodia di legno alto quasi un metro e dotato di un fornello capace di contenere, come diceva lui, cinco gramos de hashìsh y cinco cigarrillos. Gli si avvicina un arancione e sorridendo gli dice che non è il caso, che semmai dopocena, in privato, al chiuso, insomma meglio di no. Borraccio non si perde d’animo, gli sorride e ripiega per una canna, facendogli presente che però una sola canna non sarebbe bastata per tutti, mentre invece el Bong.
Piana chiacchiera coi locali e scambia la sua maglietta con una camiciola arancione sbiadita. Ancora non sorride ma almeno si mimetizza. Io e Alvi ci guardiamo intorno lievemente stupefatti. Il posto è bellissimo, la gente è accogliente e nessuno ci ha ancora indottrinato, che mi pare un bel passo avanti: alle cene dagli Hare Krishna (che pure sono gratis) ti stramazzano le palle coi bonghi, quei cimbali insopportabili, la cantilena, la vernice sulla fronte. Qua pure sono un po’ svagati ma almeno non ci vogliono benedire. Per ora si limitano a sorridere e a ostentare capezzoli spavaldi, che sembrano essere una caratteristica comune a tutte le ragazze del posto. Una di loro si avvicina, ci chiede se vogliamo una tisana e si avvia verso la casa più grande. La seguiamo e ci troviamo in una stanza enorme con un camino gigantesco. “La cucina è di qua”, ci dice lei, che si presenta come Premi Ananda ma poi ci racconta che si chiama Floriana. La cucina pure è immensa. Ci sediamo e ci versa una broda torbida che odora di spinaci, ha un sapore di creta e spezie, però è calda e dentro c’è il miele. Nel frattempo ci raggiungono altri due arancioni, Nitamba e Bahala, che salutano Premi Ananda con un bacio sulla bocca e poi baciano anche noi – però sulla guancia. Alvi chiede se può fumare: ovviamente no. Nitamba, leggiadro e filiforme, vuole sapere cosa facciamo. Alvi, veloce: “Siamo studenti”. “Io veramente lavoro anche” dico, che con la scuola non ho mai avuto grandi rapporti. “Ah sì? E che fai di bello?” Mentre glielo racconto è ovvio che non mi sta ascoltando. Mi guarda e sorride insieme a Bahala e Premi Ananda, che fanno su e giù con la testa ma evidentemente pensano a altro – forse a Osho. Segue breve silenzio sorridente rotto da Alvi, che stolidamente chiede: “E voi che fate?” Non l’avesse mai fatto. Premi Ananda fa l’orto e quest’anno ha prodotto delle zucchine talmente belle, buone e sante che sono state spesso lodate in pubblico. Bahala guida il pulmino, fa avanti e indietro con l’aeroporto, accoglie chi arriva e poi la sera mette la musica “alle nostre feste bellissime”. Nitamba, evidentemente superiore di grado, lavora per il centro e si occupa di pubblicizzare i libri di Bhagwan, “che possono davvero cambiarti la vita per sempre”, esclama guardandomi dritto negli occhi. “Li conosci?” Io, guardingo: “Sì, ho visto che li vendete in giro.” E loro, in coro: “Ma sono gratis!” E Premi Ananda aggiunge: “Vieni, ti aiuto a sceglierli”. La selezione è immensa, in varie lingue, sulle copertine c’è sempre Osho con quella faccia da santo furbo. Non saprei mai quale scegliere ma per fortuna c’è lei che ne impila velocemente cinque, mi spiega in che ordine devo leggerli e poi aggiunge: “Ti ci stanno in borsa anche per i tuoi amici?” No grazie, Premi Ananda: cinque libri basteranno per tutti.
Fuori parte la musica e tutti sembrano convergere verso il cortile: decine di arancioni sorridenti, qualcuno saltella, altri si abbracciano. Da lontano vedo Piana e Borraccio, li raggiungo. Nel frattempo hanno fatto amicizia con Lavana, Jalakeli e Nirmuta, “che ha una casetta proprio bella e ci ha offerto dei fichi secchi buonissimi fatti da lei. Però non si può fumare”, racconta Piana. Borraccio è inspiegabilmente vestito di arancione dalla testa ai piedi: camicetta, gonnellina indiana al ginocchio e un paio di espadrillas rosse almeno due misure più piccole. Ma soprattutto sembra pulito: “Eh” ammicca lui, “Jalakeli me ofreció una ducha en su casa”. Nel frattempo arriva Bahala, bacia tutti e poi va verso Borraccio che però non apprezza e arretra. “Dai, venite a ballare, poi si cena.” Ci avviamo verso uno spiazzo dove un gruppo di arancioni saltella al ritmo di musica indiana. O meglio: la musica avrebbe un ritmo complicatissimo che però nessuno segue. Si agitano a caso, sorridono, si abbracciano – sempre con quei capezzoli sull’attenti. Borraccio pare essere in discoteca, fa delle mosse sinuose e zompetta agitando le braccia. Noto Alvi che balla da fermo, mentre si guarda intorno alla ricerca di un buon posto per fumare. Lo individua e ci avviamo. Alvi ha una sua specialità universalmente riconosciuta: confeziona canne camminando, senza farsi beccare ma soprattutto senza guardare. Le rolla nella giacca: gli scompaiono le mani nelle maniche e dopo un minuto rispuntano con una canna pronta. Scoperchia, accende, inala profondamente e poi fa: “Vedi? Ecco che je manca a ‘sto posto.” Passa la canna, io aspiro altrettanto profondamente e poi aggiungo: “Ma questi se sconvorgono de natura, de saltelli e Bhagwan.” “Eh”, fa Alvi tombale: “Ma vòi mette?”
Finita la canna torniamo tra i danzanti, a questo punto diventati centinaia: sono tutti vestiti uguali e iniziano a fare paura. Anche quei capezzoli sono diventati minacciosi, come delle siringhe umane pronte a iniettarti ardore mistico. Speriamo che si ceni presto. Borraccio è in estasi, si è mangiato un pezzo di libanese perché “no me dejan fumar” e balla come un derviscio. C’è anche Piana; dice che non è stato bene, ha vomitato e una certa Bubbuzza si è presa cura di lui. Non è sicuro del nome ma “aveva dei capezzoli enormi”. Ha fame e non è il solo: lo spiazzo si svuota e tutti si spostano nello stanzone col camino, che nel frattempo si è magicamente riempito di lunghi tavoli e panche. Noi ci mettiamo tutti insieme da un lato. C’è un palchetto sul quale sale Bhandana, cuoco dal corpo statuario tutto vestito di rosso incluso il cappellone che declama, con un forte accento inglese, il menù “fatto solo di prodotti di nostro orto”. Il nome di ogni portata è accompagnato da grida di giubilo e applausi, Bhandana è molto compiaciuto. Arrivano dei vassoi con sopra delle piccole pastette vegetali, e ognuno ne prende una. Pensando che sia un antipasto facciamo così anche noi, tranne Borraccio che ne prende quattro e ne mangia un’altra al volo prima che tocchi il suo piatto. Poi sorride, loro sorridono e io mi rilasso. Mangiamo la pastetta, che tutti trovano sublime. Quindi ne arriva un’altra, uguale nelle dimensioni ma con sopra un goccetto di salsina marrone, accompagnata da un pochino di riso – in porzioni pronte, per evitare l’effetto Borraccio. Ingoio in due bocconi la poltiglia di melanzane e cipollotto con quel poco di riso, e poi sento il mio vicino, estatico: “Mmm, anche il secondo era ottimo: chissà come sarà il dessert”. Il dessert era una pagnottina ancora più piccola con dentro noci durissime e frutta secca, tenute insieme da un pochino di miele. Quantità: due bocconi.
La canna di Alvi sta facendo il suo lavoro, ho una fame bestiale ma me la devo tenere. Gli arancioni adesso sono eccitatissimi, saltano in piedi, piegano tavoli e panche, si siedono per terra e guardano verso un minuscolo televisore appeso molto in alto sopra al camino, il cui audio viene diffuso da grandi casse. Sullo schermo appare Osho. L’entusiasmo è immenso, benché si tratti evidentemente di una vecchia videocassetta. Osho si accomoda in poltrona, sorride e saluta con le mani giunte, gli arancioni ricambiano, il video sgancia, l’audio fruscia forte. Per via della posizione della tv, Osho sembra guardare i fedeli da una finestrella rettangolare. E’ in primissimo piano, parla inglese, lento, con pause inspiegabili, assaporando ogni sillaba, degustando le frasi e fremendo di gioia alla punteggiatura. Spesso è rapito da quello che ha appena detto, e gli pare così bello che si assopisce estasiato masticando l’indicibile, respirando l’eterno, nel tripudio degli arancioni. La videocassetta ogni tanto si blocca e trascina le parole, dopo venti minuti non ne posso più. Piana sta intrecciando i lacci delle sue scarpe per farne un braccialetto. Alvi esplora le cavità più nascoste e impervie del proprio naso, ricavandone materiale di varia natura che contempla con attenzione prima di spalmarlo sul cotto per terra. Borraccio dorme duro e russa un po’. Gli arancioni però non se ne dolgono, sono tutti rapiti, e aspettano con ansia che la cassetta riparta per sentire la fine della frase. Seguono risate, pianti, giubilo, abbracci. In uno di questi abbracci faccio la conoscenza di Kritsa che è tedesca, parla un poco di italiano e ha dei denti iperreali, non umani, forse di marmo. Il discorso di Osho l’ha spossata, è felice, le piace il mio nome “di maschio”, mi mette la lingua in bocca e mi porta in camera sua dove scopro che vive con il suo compagno finlandese Maulindu. Maulindu ci è evidentemente abituato, è cordiale, chiacchiera, mi sorride, dice che la gelosia non esiste, che l’amore è universale. Tutti e due mi sorridono molto mentre iniziano a spogliarsi. Mi chiedono se ho letto i libri di Osho, e mi assicurano sorridendo che “mi cambieranno la vita per sempre, e niente sarà mai più come prima. Niente, capisci?” In quel momento mi dimentico di Kritsa. Penso alla mia vita, a Minnetta, Alvi e Piana, la piazza, il motorino, la notte in giro, la radio, e non mi sembra così male. Penso che questo prima mi piace così com’è, non proprio tutto ma quasi, e “niente” mi pare un po’ troppo. Di botto mi sale il nervoso. “Sì, i libri ce li ho tutti in borsa”, esclamo sorridendo. “Avete ragione. Anzi, vado subito a leggerne uno. Sarà il potere delle parole di Bhagwan. Grazie e buona serata.” Sempre sorridendo prendo la porta e esco. Mi avvio verso la macchina nel buio pesto sperando di trovare la strada. Poi sento Alvi che bestemmia e lo raggiungo: mi dice che ha fame, non si può fumare da nessuna parte, vuole tornare in città, vaffanculo ‘sti arancioni. Concordo. Mentre camminiamo nell’oscurità Alvi produce una canna, ovviamente perfetta. Allunghiamo i sedili, l’accendiamo, la fumiamo e bum: sonno profondo. Ci sveglia Piana che è ancora buio. Ha la faccia contenta, dice che si è divertito e che domenica prossima forse torna. Anche a lui Osho gli è sembrato un po’ farlocco e la prossima volta si porterà da mangiare, ma “ao, qua se sta proprio bene, si scopa alla grande”. E Borraccio? “Ha detto che rimane,” fa Piana. “Dice che ha capito tutto, che “Jalakeli le ha revelado el significado de Bhagwan”, che adesso non si chiama più Ignacio Ibarra Calderon e manco Borraccio. Da oggi è Bandhumat”.
Rientriamo in città col primo sole, sazi di colazioni chimiche autostradali a ripetizione. E mentre guardo la gente andare al lavoro penso a Osho con la tunica brilluccicante panneggiata, il turbante di peluche coordinato e quella faccia col ghigno paraculo. Me lo vedo passare in Rolls Royce bianca, lentissimo, che sorride e saluta col Rolex tempestato di gemme e l’anellone. Saluta tutti, quelli che vanno a lavorare, i baristi che servono le colazioni, i giornalai, i pendolari, i postini e pure noi tre cazzoni strafatti e assonnati che andiamo a nanna col sole.