Cassa, burro e parmigiano

Tra le nuove musiche di tradizione colta nate nel secolo scorso, quella detta Minimalista ha sempre avuto un posto speciale nel cuore, e nelle orecchie, del pubblico. Steve Reich ha detto una cosa molto giusta sulla musica Minimale: secondo lui non è, come spesso si dice, il genere di una generazione di compositori, ma è la musica che una certa generazione di autori ha suonato in un determinato periodo – più o meno tra il ’65 e il ’75. Come musica di derivazione colta, il Minimalismo ha avuto una vicenda commerciale davvero inusuale. Due dati su tutti: Music in 12 parts, parts 1 & 2 di Philip Glass fu pubblicato nel ’74 da un’etichetta Prog, la Caroline/Virgin, e in Italia uscì quasi subito in edizione economica. E naturalmente la lunga e importante relazione tra un’etichetta di vocazione (allora) perlopiù jazzistica come la ECM e Steve Reich.

Dice Wikipedia alla voce Minimalismo: “L’architettura della musica Minimale si sviluppa su cellule melodiche brevi e semplici, e su figure ritmiche immediate, e dipana il discorso creativo sulla ripetizione, spesso ossessiva, di tali moduli, mentre il castello armonico e timbrico si evolve a formare la chiave espressiva dell’opera, utilizzando talvolta strumenti di raro utilizzo e sonorità inusuali, con la complicità dell’elettronica e della musica popolare.” Una definizione perfetta, non soltanto per descrivere questo genere: si potrebbe utilizzare tale e quale per descrivere un certo sottogenere trasversale di musica house. Non mi riferisco ai recenti esperimenti (alcuni dei quali eccellenti) che vanno sotto l’odiosa definizione di IDM (Intelligent Dance Music, come se l’altra fosse stupida), ma di una vena presente nella house fin dall’inizio. Musicisti che lavorano su “cellule melodiche brevi e semplici, e su figure ritmiche immediate”, rinunciando a qualsiasi appiglio legato alla forma canzone (come il ritornello) per dipanare “il discorso creativo sulla ripetizione, spesso ossessiva, di tali moduli”. Analizzando la struttura di questa musica ci si accorge che anche qui “il castello armonico e timbrico si evolve a formare la chiave espressiva dell’opera”, e che sono frequenti le “sonorità inusuali, con la complicità dell’elettronica e della musica popolare.”

Un ottimo esempio di questo genere è costituito da The funk phenomena, grande successo commerciale pubblicato nel 1996 da Armand Van Helden e remixato infinite volte. Van Helden è un produttore e dj americano che, con brani originali o remix, è un cliente abituale delle discoteche e delle classifiche di mezzo mondo. Ha anche prodotto un sacco di cose discutibili (per sua stessa ammissione), ma la versione originale di The funk phenomena è perfetta. Contiene 4 ingredienti: un beat house molto semplice (cassa, rullante e charleston), un giro di basso di due note, una voce, rubata chissà dove, che dice (non canta) la frase “the funk phenomena” e un loop (anche questo di provenienza incerta, sicuramente da un disco) con una micromelodia ritmica di una misura. Entro i primi 90 secondi abbiamo già ascoltato tutti gli elementi, e nei successivi 5’29 il gioco è quello di ricombinarli, filtrandoli (per alterarne i timbri) e ricomponendoli in un capolavoro di essenzialità ed efficacia. Naturalmente si tratta di musica dance che, essendo interattiva, può permettersi di variare molto meno (questo è il motivo per cui se la si ascolta come si ascolta Mahler, dopo un pò annoia). Ma è certamente di uno dei brani con meno elementi che io abbia mai sentito. E in musica, a mio parere, vale l’ottimo proverbio inglese: less is more.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *