Nella mia famiglia abbiamo fatto salti generazionali piuttosto lunghi: tra mia madre e i suoi genitori (nati a fine ‘800) c’erano circa 30 anni (molti per l’epoca), tra mia madre e me ce n’erano 40 tondi. Questo fatto mi ha permesso di osservare alcuni passaggi epocali da vicino e di ascoltarne le storie direttamente da chi le ha vissute. Un esercizio spesso divertente e utile per capire il passato – e a volte perfino il futuro.
Dai Messina, emigrati a Roma durante la prima guerra mondiale, il telefono arrivò diversi anni dopo. Un cambiamento epocale, accolto con entusiasmo dai figli e da mio nonno ma non dalla nonna, profondamente tradizionalista. Per lei era un’assoluta invasione della privacy domestica, una tecnologia schiavizzante che la obbligava a essere “pronta” senza alcun preavviso: intollerabile. La sua vita sociale era infatti regolata secondo uno schema forse immutato dalla preistoria: incontrava le amiche durante la settimana e si prendevano accordi per la formalissima, irrinunciabile visita della domenica pomeriggio. Che avveniva sempre e comunque in qualsiasi caso, quindi non aveva bisogno di una telefonata di conferma o tantomeno di disdetta. Ho trovato esempi di un atteggiamento simile in un libro sulla storia del telefono: pare che all’inizio i ricchi lo facessero installare nella zona dei domestici, e qualcuno addirittura delegasse loro le comunicazioni, stile messaggero medievale. Mia madre invece ne era assolutamente entusiasta, con un ardore che mi è sempre sembrato esagerato. Passava ore, pomeriggi al telefono, e tra i suoi oggetti più cari c’era una prolunga infinita che le permetteva di rendere domesticamente portatile l’apparecchio e girovagare per casa mentre chiacchierava: per lei che non amava uscire, sostituiva perfettamente la presenza fisica.
Forse anche per questo non ho mai avuto un rapporto tanto stretto col telefono. Certo, durante l’adolescenza ne ho abusato anche io, ma oggi una telefonata di un’ora mi sfianca totalmente: un pivello, secondo gli standard materni. Come molti miei coetanei ho attraversato le varie fasi di questa tecnologia: il cordless, la segreteria telefonica (sì, coi messaggi “creativi”, lo confesso), il fax, il leggendario Videotel e alla fine pure il modem, lo scatoletto rumoroso che consentiva di collegarsi a Internet. Poi a un certo punto, intorno ai 35 anni, mi sono comprato un cellulare; non subito (non sono mai stato ricco e all’inizio il giocattolo era costosissimo) ma senza alcuna resistenza: ho capito subito che si trattava di uno strumento potenzialmente utilissimo. Non così mia madre: “Mica faccio il medico, perché devo essere reperibile sempre e ovunque? Se non mi trovano richiameranno”. Quindi per lei il telefono era una tecnologia domestica, e il tempo trascorso altrove non necessitava di una connessione costante. Solo da anziana ha capito che magari poteva esserle utile, tra l’altro era un’automobilista estrema e spesso guidava di notte. Ma non rispondeva mai: tornava a casa e richiamava dal fisso. Nel frattempo ho preso il primo di una serie di smartphone, è arrivata l’era dell’always on (traducibile con “pronto sempre”) e oggi alcune app sono diventate necessarie – com’è capitato a molti di noi.
Però sono abbastanza antico da ricordare una sensazione poderosa. Ho sempre amato viaggiare: viaggi solitari, lunghi, in posti lontani e a volte difficili. Uno dei problemi era proprio comunicare con casa, far sapere a una mamma iper-apprensiva che stavo bene. A volte era un calvario: negli anni ’80 per chiamare dall’India bisognava andare al posto telefonico pubblico, prenotare una chiamata internazionale, mettersi comodi e attendere – talvolta delle ore. Da certi paesi non si telefonava, toccava spedire telegrammi: tutto bene stop. Un disastro, ma con una consolazione: fatta la telefonata, spedito il telegramma tornavo a essere altrove, libero di restarci fino alla chiamata successiva. Essere altrove è un’esperienza intensa, una condizione insieme geografica e psichica, l’ambiguità linguistica lo spiega bene. Specie se si è da soli il viaggio è un cambiamento mentale, uno stato di “altro da sé”, un sé che si può lasciare in aeroporto all’arrivo e ritirare quando si riparte. Un’esperienza molto forte, talvolta terrificante e spesso vertiginosa che però temo venga neutralizzata dal telefono che squilla e le notifiche a pioggia. Ovviamente non sottovaluto i vantaggi del viaggiare connessi, l’ho fatto e so che sono immensi. Mi chiedo però se la telefonata di lavoro (magari anche utile) o il messaggio sul gruppo del condominio non interferiscano col giocare con dei bambini che non parlano la tua lingua, perdersi tra delle rovine o conversare con uno sconosciuto sul senso della vita, un viaggiare spaziale che certe volte diventa anche interiore. Insomma disturbino quell’essere diverso, talvolta alieno e quasi mai pronto che si diventa quando si è altrove. Mannaggia: invecchiando sono diventato mia nonna.
Penso di essere solo di poco più giovane e ho vissuto esperienze simili. In Perù negli anni 90 per chiamare a casa era complicatissimo e costosissimo: dovevi trovare un ufficio postale che avesse anche i telefoni, pagare 3 minuti in anticipo, aspettare a volte più di mezz’ora… Ma la differenza più significativa, per me, sta nell’incertezza. Si arrivava in un posto senza sapere dove avresti dormito, mangiato, con al più un’idea di quello che c’era vedere ma senza aver già visto mille foto. I posti si scoprivano davvero. Adesso si sa già cosa si troverà, spesso nei minimi dettagli. L’esperienza del viaggio è cambiata e non credo si possa più tornare indietro.
Hai ragione, l’incertezza era parte dell’esperienza, trovare un albergo e chiedergli se avevano una stanza, infilarsi in un ristorante senza recensioni… Capisco chi oggi vede molti vantaggi, ma.