Mettere mano

Tra le mille, nuove possibilità artistiche offerte dalle tecnologie digitali c’è anche l’interattività, cioè la possibilità di personalizzare un’esperienza. Esistono molti generi di interattività: clicca qui, passeggia lì, muovi le braccia, premi il pulsante colorato, lancia la palla, ecc. A questi gesti corrisponde abitualmente una qualche variazione nel flusso (nel caso di musica video) o nella composizione, per esempio cromatica, nel caso di arti spaziali.

Com’è successo? Come mai oggi sentiamo l’esigenza di personalizzare un’esperienza, di interagire con le arti? La prima ragione è naturalmente che oggi si può, grazie appunto alle nuove tecnologie: sensori, raggi, interfacce manipolabili che rendono possibili queste soluzioni. Poi naturalmente c’è l’estetica del PC, macchina interattiva per eccellenza. Penso anche che l’uso del telecomando, che possiamo chiamare zapping oppure montaggio interattivo personalizzato, abbia qualche responsabilità. Oggi sembra che la passività, tratto storicamente saliente degli spettatori, non soddisfi più e che invece si desideri mettere mano.

Comunque sia successo, oggi esistono due macro-generi di arte interattiva, assistita e libera. Nel primo caso le opzioni sono di numero finito, pre-programmate, e lo spettatore opta – a volte in maniera consapevole (come nel caso degli esperimenti teatrali e cinematografici di finale multiplo a scelta), altre volte no: in uno spazio mappato con delle sonorità fisse che si attivano spostandosi in una certa zona, il suono risultante sarà prevedibile dal compositore, anche se lo spettatore non se ne accorge e avrà l’impressione di interagire. Nel secondo caso invece si fornisce all’utente uno “strumento” non convenzionale (per esempio che si suona danzando in uno spazio) dove il risultato finale sarà interamente dovuto ai movimenti dell’utente.

Benché trovi la questione assai interessante, il modo in cui si pensa oggi l’interattività mi lascia abbastanza tiepido. La mia impressione è che funzioni bene solo se applicata a concetti e modalità completamente nuovi, mentre nelle forme artistiche a noi note sia meno efficace – proprio concettualmente. Mi spiego: l’idea del film con finale multiplo scelto dagli utenti mi fa orrore. Voglio il finale dell’autore, per poi poter dire che non mi piaceva. Un quadro del quale posso cambiare i colori non mi convince: se ce l’ho è proprio anche per via del modo sublime nel quale l’autore l’ha colorato. Potrei fare di meglio? Non credo. Per me il bello dell’esperienza dell’arte è anche essere prigionieri della fantasia altrui, spettatori di scelte magari sconcertanti – che io non farei.

Invece mi affascinano moltissimo due sviluppi: l’interazione come gioco, che funziona benissimo anche coi più piccini e ha infiniti possibili sviluppi, e l’idea di poter suonare una stanza, dipingere l’aria o scolpire muovendo le mani: cose rese possibili dalle nuove tecnologie. In questo caso l’artista diventa un progettista di strumenti – e l’arte, si sa, è nascosta dentro gli strumenti. L’utente, dopo una curva di apprendimento, impara a utilizzarli producendo dei risultati solo parzialmente prevedibili. Sta accadendo nei videogiochi, genere interattivissimo e pieno di utenti fuoriclasse, il cui comportamento è prevedibile dal progettista solo fino a un certo punto. Ecco: credo che il futuro dell’interaction design sia più simile a G.T.A. (gioco dall’interattività complessa e profonda) che a “Clicca 1 per il lieto fine”.

Foto: Reactable, di Daniel Williams (Wikimedia)

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