Che meraviglia gli italo-americani, contemporaneamente simili e diversi dallo stereotipo di cinema e tv – stile Sopranos. Ovviamente alcune cose sono vere: l’accento (mirabilmente rappresentato da Joe Pesci in Goodfellas, un film che dovrebbe esistere solo in lingua originale), il vestiario maschile (gessati, camicie lucide e mocassini furibondi), l’amore per tutto ciò che è italiano. Ma gli italo-americani sono innanzitutto americani, anzi sono una delle comunità più numerose; e in passato non hanno avuto vita facile. La storia è nota: arrivavano a migliaia su “bastimenti” bestiali, per poi essere filtrati e sanitizzati in posti non poi così dissimili dai nostri Centri di identificazione e espulsione, il più noto dei quali era Ellis Island a New York. Una volta fuori non era certamente semplice, per ragioni simili a quelle per cui non è facile per i migranti a casa nostra: problemi di lingua, di adattamento culturale e ovviamente di razzismo. Ecco come mai, fin dall’inizio, ci fu il fenomeno delle Little Italy: in un paese a cui non piaci, e che ti tollera a malapena, trovarsi tra simili diventa essenziale. Assistiamo a fenomeni simili in moltissime città italiane nel 2009, per lo stesso motivo: l’Italia pensa di non essere un paese razzista, ma basta entrare in confidenza con un immigrato per scoprire che non è così.
Una volta regolarizzati, la stragrande maggioranza dei nostri concittadini emigranti adottò una strategia non poi così dissimile da quella degli immigrati in Italia: essere dei gran lavoratori. Può sorprendere (e certamente ha sorpreso me), ma qui gli italiani sono considerati infaticabili e intraprendenti, e pian pianino si sono conquistati un notevole spazio, anche culturale. “All’inizio è stata durissima,” mi racconta Pauley, negli Usa da 50 anni, “non capivo niente, mi sfottevano e mi pagavano niente. Poi, a furia di lavorare 12, 15 ore al giorno, ho iniziato a costruirmi un futuro – per me e per i miei figli. Oggi, finalmente, gestisco il mio ristorante e posso dire di avercela fatta. Sono molto grato a questo paese: malgrado le sofferenze sono felice di stare qui, e non tornerei indietro.” Ovviamente, in questi cinquant’anni, Pauley è profondamente mutato, e la sua italianità nel tempo è diventata italo-americanità.
Recentemente ho visto in teatro “A Bronx tale” un magnifico monologo scritto e interpretato dall’attore italo-americano Chazz Palminteri (ne esiste anche una versione cinematografica). Racconta della sua infanzia nel Bronx, la Little Italy della sua gioventù. E malgrado interpreti molti dei luoghi comuni sugli italiani (presumibilmente veri), racconta anche una storia di riscatto e di emancipazione. Perché gli italiani hanno fatto grandi progressi in molti rami della vita americana: sono italiani due tra i politici più popolari di New York, il sindaco Rudy Giuliani e l’ex governatore Mario Cuomo. Nel cinema esiste una specie di lobby italo-americana potentissima: attori, registi, sceneggiatori, ecc. Poi ci sono i sorpresoni: lo sapevate che il biondissimo wrestler Hulk Hogan di cognome fa Bollea?
Insomma gli italian-american hanno fatto un sacco di strada dai tempi dell’ultimo linciaggio ai danni di italiani per motivi razziali, avvenuto in Virgina alla fine dell’800. E malgrado tutto (inclusa la mafia, le truffe e l’insulto Wop, l’equivalente di negro per noi italiani) hanno saputo riscattarsi e acquisire una posizione di rispetto nella società americana. Mi pare un segno di speranza per tutti gli immigrati che stanno cercando di farcela, ovunque. Anche loro lavorano moltissimo, e hanno dovuto (e, temo, dovranno ancora) patire ingiustizie, angherie e nomignoli indecorosi. Vedremo se, col tempo, la società italiana saprà essere giusta e riconoscente verso di loro come è stata quella americana con noi. Onestamente però, per mille ragioni, la vedo lunga.