Per mille ragioni, alcune anche buone, quest anno ho visto Sanremo. Non proprio tutto tutto, spesso facendo dell’altro, ma insomma l’ho seguito. Soprattutto volevo sentire le canzoni, alcune anche di amici: Sanremo a volte è un buon indicatore del pensiero musicale dominante in Italia. Sorvolo su Fazio e compagnia, ci hanno già pensato gli ascolti a dire cosa ne penso: letale. La musica pure mi è sembrata in media poco consistente, in termini pop: melodie involute, ritornelli mosci (con alcune eccezioni, come Frankie o Sarcina), canzoni che si dimenticano al primo ascolto e ancora di più al secondo, come quella vincitrice di Arisa. Alcuni brani delle nuove proposte erano indifendibili (altri avevano più senso), e lo stesso vincitore prende il premio alla furbizia (e un riconoscimento a una delle città più Hip hop d’Italia, Napoli). Insomma il solito Sanremo, ma senza quei ritornelli che, volente o nolente, ti restano in testa.
Tranne uno, che secondo me rappresenta veramente la sorpresa di questo festival: Liberi o no, di Raphael Gualazzi & The Bloody Beetroots. Il primo me lo ricordavo come discreto Ray Charlesista giovane (un genere di cantante che in Italia va molto), con un certo naso per la melodia. Del secondo si sa un sacco, è un nome che ha girato molto nella nuova scena italiana (e internazionale) post-electro. Insieme hanno fatto questo brano, che secondo me ce le ha tutte: la melodia del verso è perfetta, ipnotica, bluesy, e la musica è carica di tensione. Che si sfoga in un ritornello poppissimo, e in un prevedibile ma riuscito special gospel. Il tutto è pure assai ballabile. E’ un brano che ha tutte le potenzialità: cover di lusso, remix, club version – insomma il trattamento standard del pop internazionale: merce rara, a Sanremo. E che, se paragonato agli altri in gara, come valore pop li seppellisce quasi tutti.