Slow Country

Durante la scorsa estate mi è capitato di parlare dell’Italia con degli stranieri; si menzionavano le cose che rendono il nostro paese unico e apprezzato nel mondo: il clima, il cibo, lo stile di vita e via dicendo. A un certo punto mi è stata fatta una domanda apparentemente innocua, che però ha scatenato una risposta abbastanza brutale, e quindi una catena di riflessioni di cui vorrei raccontarvi – essendo cose che mi pare ci riguardino tutti. La domanda era: “Cosa pensi del fatto che i giovani italiani rifiutino i mestieri della tradizione come l’agricoltura, e che quindi certe attività e prodotti rischino l’estinzione?” La mia risposta a botta secca è stata inaspettata perfino per me: “Spero che i giovani italiani diano fuoco agli oliveti e alle vigne: il vino lo fanno bene anche gli australiani, noi invece dovremmo produrre più software.”

Intendiamoci: anche a me piacciono molto l’olio extravergine serio e la mozzarella a nodini, il Chianti classico e la Bottarga doc; non è che mi auguri l’estinzione del Lardo di Colonnata o la scomparsa del Parmigiano Reggiano – affatto. Il problema è più ampio, e riguarda la relazione degli italiani col passato, e come questo influisca sul nostro futuro. L’Italia, lo sappiamo, ha alcuni punti di eccellenza, solitamente collocabili in un tempo antico e per certi versi mitico. Un buon esempio è la musica: quella italiana degna di nota è notoriamente la Lirica, l’Opera. I grandi compositori nostrani sono Verdi, Rossini, Puccini e colleghi; autori sublimi, la cui musica è famosa e suonata in tutto il mondo. In Italia si tratta dell’unico genere musicale che goda di finanziamenti pubblici, in quanto riconosciuto come “Vera Musica Italiana”. Sono contro Verdi? Per niente. Non posso però non pensare che se non ci fosse stato lui, forse oggi sarebbero sovvenzionati generi più contemporanei, come avviene in altri paesi.

Le città italiane sono tra le più belle del mondo; alcune poi sono quasi miracolosamente sublimi, come Venezia, Genova o Matera. Perdersi tra i vicoli di Napoli costituisce una delle esperienze psico-urbanistiche più intense, e città come Firenze o Lecce sono talmente fantastiche da farti stare quasi male. Tutto questo però significa anche che l’architettura contemporanea non ha grandissimi spazi qui da noi, e un giovane architetto brasiliano, messicano o perfino francese ha molte più possibilità di vedere una sua opera realizzata del suo omologo nostrano. Notoriamente gli assessorati alla Cultura dei piccoli paesi italiani spendono il 100% del loro budget in sagre, feste popolari (a volte palesemente false, nel senso di anticate ma non antiche) e santi patroni. Benché io non sia di principio contro la Salamella di Montefinocchio, la corsa delle bighe trainate da maiali o il culto di Santa Invereconda Martirizzata, so benissimo che quei soldi potrebbero invece essere investiti per esempio in una sala prove per i gruppi rock locali, o nella produzione di un DVD che valorizzi i videomaker della zona.

Insomma: uno dei problemi di questo difficile paese è certamente il suo ingombrante e insuperabile passato. Un passato che ci inorgoglisce certamente, ma che mi pare abbia anche alcuni notevoli effetti collaterali negativi. Uno dei teorici della nuova concezione di copyright, Lawrence Lessig, ha coniato una frase che mi pare molto adeguata al nostro caso: “Il passato cerca di impedire al futuro di accadere”. Ecco il senso della mia risposta acida: l’attività di famiglia è certamente un grande tesoro, tranne nel caso che l’abbiate ereditata da 100 generazioni ma che invece la vostra aspirazione sia suonare il trombone in un gruppo Ska, o produrre animazioni frattali. In questo caso si tratta evidentemente di un ostacolo al futuro, e difenderne l’esistenza (specialmente dalla comodità di una poltrona) significa sacrificare all’idea di un passato insuperabile il presente – che sarà quindi inevitabilmente peggiore.

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