Sottotraccia

Scrivo questo articolo anche sull’onda di alcune conversazioni avute negli anni con amici musicisti. Ho iniziato a affacciarmi al business della musica nei primi anni ’80. Non ne facevo ancora in prima persona ma iniziavo a capire. Avevo contatti con le case discografiche e intervistavo artisti, non solo famosi, anzi: la gran parte erano di nicchia, talvolta di una nicchia piccolissima. Eppure riuscivano a vivere della propria musica – talvolta perfino sperimentando.

Oggi non è più così, lo sappiamo tutti, se n’è parlato molto. Le ragioni di questo cambiamento sono molte e molto antiche. Un primo indizio è stata l’esplosione del videoclip, quando MTV è diventato il principale veicolo promozionale della musica: non solo selezionava i video in base alla qualità (del video, non della musica), ma – essendo un canale commerciale basato sulla pubblicità – filtrava qualsiasi contenuto anche solo vagamente estremo o di nicchia, preferendo Popstar fotogeniche che dominavano la scena overground. Per fortuna esisteva una vasta scena underground: riviste, fanze, club, centri sociali, festival, luoghi dove invece si preferivano altri mondi, e che avevano un proprio mercato fuori da MTV. Tra i molti fili che legano l’Hardcore Punk e l’Hip hop italiano delle origini c’è la comune appartenenza a quel mondo di riferimento. Qualcuno di questi fili arriva fino a noi attraverso la Techno.

Un altro fattore è stata la progressiva scomparsa di qualsiasi senso di avventura da parte delle case discografiche, che hanno eliminato dai propri cataloghi i prodotti di nicchia, e smesso di “crescere” gli artisti, consentendogli di trovare la propria strada magari lentamente. Dagli anni ’80 in poi si cercano cantanti e musicisti di bell’aspetto (da cui i talent show) e produttori “chiavi in mano”, se il primo disco va male forse non ce ne sarà un secondo. Internet ha pure fatto il suo, nel bene e nel male. Certo, Napster e il file sharing hanno impallinato il modello economico precedente, ma anche la lentezza delle Major nel produrre un modello alternativo. La mazzata finale è stato lo streaming, attuato secondo un modello monopolistico dai grandi detentori di diritti (che non sono più label ma gestori di repertori). L’onnipresente frase “su tutte le piattaforme” nasconde una verità miserabile: sono tutte uguali, hanno le stesse cose, sono intercambiabili e i denari finiscono sempre nelle solite tasche.

Oggi la situazione è difficile. Da un lato le piattaforme, per entrare basta pagare – soldi che il 99,9% dei musicisti non rivedrà mai. Quindi nella stragrande maggioranza dei casi lo streaming è un vanity project, un esserci per esistere ma non per sopravvivere, magari un esercizio promozionale ma sicuramente non economico. Dall’altro gli store indipendenti come Bandcamp o Beatport: si entra gratis e se si vende si paga una stecca. In ambedue i casi però bisogna anche far sapere alla gente che esiste un nuovo disco. Abitualmente si fa sui social, direttamente l’artista o l’etichetta. Due considerazioni: non sempre se canti bene sei anche un buon pubblicitario, sono mestieri diversi e spesso si nota. Inoltre i social prioritizzano i contenuti secondo il maledetto algoritmo, e bisogna ripetere lo stesso messaggio all’infinito nel disperato tentativo di raggiungere tutti: umiliante e inefficace. L’alternativa è pagare ancora. Poi ci sono i concerti/dj set, per molti ormai l’unica fonte di guadagno insieme al merchandising. Come dicevo prima, quando mi sono affacciato a questo mondo esisteva una quantità di luoghi dove suonare un’ampia gamma di generi. Oggi non è più così, per una miriade di ragioni qualcuna delle quali ho descritto qui sopra. Che fare? Come si esce da questo tunnel?

Una possibile via d’uscita mi pare proprio l’underground. Ma non come gavetta, palestra dell’overground. Più nello spirito di certo Punk ma anche di Zappa, che definiva il suo Optional Entertainment: non per tutti, solo per chi è interessato. Nell’epoca della disponibilità totale di qualsiasi cosa forse nascondersi potrebbe funzionare, esserci ma non sempre e ovunque come Katy Perry. In un mondo di disperati che rappresentano se stessi sui social (mi ci metto anche io), forse è arrivato il momento di sparire. Non per scomparire, anzi: per essere visibili in maniera più significativa, per restituire magia a un mondo intasato di commenti sul WC di Drake (che dicono essere strabiliante). Purtroppo negli ultimi anni la geografia urbana è molto cambiata (per colpa degli amministratori locali e nazionali di qualsiasi colore), e tranne in rari casi l’unica offerta di aggregazione rimasta è quella commerciale. Però credo che si possa ristabilire un filo che magari potrebbe crescere. Non un filo col passato (che magari per certi aspetti era migliore ma ben lungi all’essere perfetto) bensì una riconnessione col senso intimo di curiosità, di avventura, di costruzione collettiva che è sempre stato parte della nostra musica.

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