Uno dei peccati del ventunesimo secolo, veniale ma comunissimo e spesso irritante, è l’autocelebrazione. Quando lo commettono dei giovani sono indulgente, capisco che a volte serva una dose extra di motivazione e quei superlativi possano essere utili: la certezza di essere la migliore band del mondo è certamente un ingrediente utile per poi magari diventarlo. Nessun rapper si definirebbe nella media, bene ma non benissimo: sono tutti i best, i coolest, i numeri uno. Poco male, hai vent’anni, e mentre individui la tua strada cerchi di pensare positivo. Quello che invece sorprende, qualche volta intristisce e annoia quasi sempre (almeno me) è l’autocelebrazione di quelli che “ce l’hanno fatta” – o anche solo quasi.
Prendi Vasco: in Italia è la popstar numero uno, vende valanghe di dischi (tutte meritate), fa zillioni di stream e riempie gli stadi. Si descrive come provocatore, trasgressivo e “rock” (un termine ormai alieno che come aggettivo usano soltanto lui, Celentano e Mollica), eppure anche Vasco, appena ha potuto, c’è cascato con tutte le scarpe. Come autore di auto-libri è attivo dal ’96: Diario di bordo del capitano (con Grazia Lissi, Mondadori). Seguono nel 2005 Vasco. Le mie canzoni (Mondadori), Qui non arrivano gli angeli (con Massimo Cotto, Aliberti, 2005), Provokautore (con Vincenzo Mollica, Einaudi, 2006), La versione di Vasco (Chiarelettere, 2011). Non ne ho letto nessuno, scusatemi. Però ho una certa dimestichezza con l’editoria, e mi sento di escludere contenuti controversi o anche solo critici. Invece ho visto per intero Il Supervissuto, estenuante documentario in 5 (cinque) puntate dove “la rockstar più amata d’Italia offre un accesso senza precedenti a dettagli intimi della sua vita personale e della sua incredibile carriera nel corso dei decenni.” 244 minuti di autostima assoluta, di Vasco che parla bene di Vasco, di quanto è rock, la parrocchietta, il paesello, il balcone dal quale vedeva Silvia, le foto delle medie, della radio, degli esordi. Intervallato da dichiarazioni entusiaste di amichetti dell’asilo e altri miracolati – letale e insoddisfacente. Manca tutto: la droga (a cui si accenna solo velocemente), le groupie (nell’ambiente circolano leggende ma nella serie non c’è traccia), gli eccessi rock o anche solo un tour delle sue case o automobili. Perfino Wikipedia è più eccitante: “Il 1º luglio 1988 viene arrestato mentre da solo a bordo della sua BMW procede ad alta velocità sulla A14 con a bordo un grammo e mezzo di cocaina, uno sfollagente e una pistola lanciagas.” Un episodio molto “rock” alla Phil Spector del quale però non sappiamo niente: il Blasco lanciava del gas? E chi sfollava? Non si sa. Per capire la natura di queste oltre 4 ore di tv la parola chiave è proprio auto. La serie forse è co-prodotta, e comunque evidentemente autorizzata e approvata da Vasco, in uno spasmo autocelebrativo incomprensibile: ha già vinto tutto, incluse una laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione e il conio di una moneta da cinque euro dedicata a Albachiara. Che altro va cercando? Ma Vasco è solo un esempio estremo, oggi siamo pieni di documentari auto-agiografici. Per fortuna orientarsi è semplice: se autoprodotto, tranne in rari casi (o se siete fan estremi) evitare con cura.
Più delicato è il tema delle autobiografie, così delicato che non farò nomi. Però da qualche anno (innanzitutto tra gli editori, che cercano di vendere libri) c’è il vizio dell’autobiografia anticipata, una combo assai complessa da gestire. Già raccontare se stessi non è semplice, e perfino se ti fai aiutare è difficile che l’operazione riesca: le migliori biografie, quelle più interessanti e complete, raramente sono auto. Se poi la scrivi a trent’anni la capriola diventa ancora più ardua: a differenza di Vasco, tu non hai ancora la moneta dedicata. Quindi mentre lui si imbroda senza apparente senso, il tuo libro sembra autoerotico e lievemente immotivato (salvo a essere tuoi fan). Tutti gli stereotipi sono buoni: infanzia difficile, perdizione adolescenziale, la musica mi ha salvato, mia moglie è la mia ancora di salvezza (aka badante), la droga fa male. Qualcuno si porta pure dei testimoni, ma la frase “era un bastardo da ragazzo, mi pare solo marginalmente migliorato” non c’è mai: bravo, buono, bello, profumato, solidale. Seguono il commovente incontro con una Onlus della quale è testimonial, la bellezza del rapporto coi fan e l’importanza delle cose semplici – mentre io mi taglio le vene. I più bravi si sono fatti venire delle idee (a volte anche buone) per dare un senso al libro, altri invece hanno prodotto fiction non autocelebrativa (qualcuno con risultati eccellenti), ma la media generale è bassina. Mi pare che il problema sia proprio nell’auto: auto-celebrazione autobiografica autorizzata. Un’auto che servirà pure a vendere dei libri o fare degli stream ma che non porta da nessuna parte, se la destinazione è capire davvero il senso di un’artista (con o senza apostrofo).