Ecco una storia della mia famiglia, come è stata raccontata a me da bambino:
Quando i Messina si spostarono dalla Sicilia (mantenendo però relazioni strettissime e tornandoci spesso) a Roma, dopo la prima guerra mondiale, affittarono una casa in centro (all’epoca non una zona di pregio come oggi), per l’esattezza in Piazza Mattei, a ridosso del Ghetto. Proprio a ridosso: ancora oggi all’inizio di via della Reginella si possono vedere i cardini dei cancelli che una volta si chiudevano di notte. Naturalmente la convivenza con gli ebrei era quotidiana: tutti i negozianti lo erano, e così tutti i vicini.
All’alba del 16 ottobre del ’43, i miei furono svegliati da un grande trambusto per strada. Spiando dalle persiane accostate, assistettero al rastrellamento degli oltre mille ebrei portati via dal ghetto di Roma. L’espressione che usarono nel raccontarmi questa storia è rimasta con me da allora: “Si portarono via i vicini”. Non gli ebrei, ma i vicini. Questa parola ha dato alla vicenda un sapore diverso e familiare, e ogni volta che viene il 16 di ottobre (una data che mia madre, all’epoca ventiquattrenne, ricordava ogni anno), io penso a un esercito straniero che si porta via i miei vicini, il mio fornaio, la signora del palazzo di fronte, il farmacista all’angolo.
Naturalmente esistono responsabilità collettive, c’è già stata una lunga elaborazione ma ancora non basta: l’antisemitismo esiste ancora, anche in Italia. Però nella memoria diffusa e familiare di molte persone come me ci sono pure queste storie, che mi sembra restituiscano in maniera più realistica quello che è successo. Perché non è che si sono portati via gli ebrei (cioè qualcuno che, secondo me a torto, potrebbe essere considerato “altro”), bensì i vicini – cioè noi. Dei nostri vicini romani (molto più romani di chiunque altro a Roma, essendo lì da duemila anni) ne sono tornati sedici – e oggi sono settant’anni da quel brutto giorno.

