Potere al Pop

Il rapporto tra cultura Pop e potere è un indicatore piuttosto utile per conoscere lo stato di salute di una democrazia, e per capire meglio la funzione della musica nelle varie società. Oggi quando si parla di musica Pop (nell’accezione più ampia di Popular Music) si tende a associarla allo svago, dimenticando che molto spesso queste musiche, e gli stili che le accompagnano, sono lo specchio di un modo di pensare e di essere, e che quasi sempre implicano anche un atteggiamento culturale verso il mondo, uno sguardo. Anche solo rimanendo nel secolo scorso, sono molti gli esempi di questo difficile rapporto. Nessuno dei grandi regimi totalitari ha tollerato la cultura Pop. Negli anni ’30 in Italia, durante il Fascismo il Jazz, molto popolare, era proibito e si vendeva sottobanco: sui dischi di Armstrong c’era scritto Luigi Braccioforte. A Mussolini non piaceva lo Swing? La questione è più complessa: il Jazz era definito “Musica primitiva” e “Negroide” che risvegliava gli istinti più bassi, rendendo i bianchi meno bianchi. Hitler da parte sua non solo proibì il Jazz ma anche quasi tutta l’arte moderna, mettendola direttamente al rogo. Durante gli anni della guerra fredda, l’URSS tentò di impedire l’accesso a tutta la cultura giovanile (che in occidente stava esplodendo proprio in quel periodo), vista come una sorta di braccio armato culturale del capitalismo e portatrice di idee inadatte ai giovani sovietici: i dischi circolavano clandestinamente, stampati sulle radiografie (foto, clicca per ingrandire). Negli USA degli anni ’30 il Jazz non era proibito ma la vicinanza tra “razze” invece sì (in molti stati c’era la segregazione razziale; erano anni terribili di razzismo selvaggio, perfino supportato da alcuni scienziati e intellettuali). La campagna proibizionista sulla Marijuana individuava la Cannabis, il Jazz e la promiscuità razziale come fenomeni collegati – in grado di erodere la fibra morale della gioventù. Idem il Rock’n’roll solo qualche anno dopo. Nel 1985 viene introdotto il bollino “Explicit Lyrics” sui dischi (Metal e Rap), in teoria per proteggere i minori, ma anche nel tentativo di ghettizzare alcuni generi. Per fortuna l’effetto ottenuto fu il contrario, ma tuttora sulle piattaforme di streaming persiste la dicitura “Explicit”. Sono solo alcuni esempi.

Ancora oggi in molte società certa musica è proibita, regolamentata o filtrata, così come le culture Pop: essere Punk in Yemen (o in Cina) dev’essere piuttosto complicato. E che dire dell’Afghanistan? Non appena i Talebani hanno preso il potere hanno proibito la musica, e qualsiasi stile che non fosse il loro: pare che ai barbieri di Kabul sia proibito tagliare le barbe. Abbiamo ancora tutti negli occhi le terribili scene dell’attentato jihadista del 2015 al Bataclan di Parigi, 90 morti e oltre 200 feriti: perché proprio il Bataclan? Perché nelle ideologie totalitarie la musica, gli stili e le culture Pop sono viste come portatrici di libero pensiero, di ribellione e di liberazione. Dai capelloni allo Skate fino alla Techno, anche in occidente ci sono infiniti esempi recenti di relazione difficile tra culture Pop e potere. Nel 2008 in Italia è stata presentata una proposta di legge anti-Rave (del PD), che recita: “Il termine proviene dalla parola inglese «rave» che letteralmente significa «delirio», ma che in senso più ampio sta a indicare la voglia comune di svincolarsi da regole e convenzioni socialmente imposte, la ricerca di una libertà totale fisica e mentale che si esprime attraverso il ballo e anche attraverso il consumo di droghe”. Si commenta da solo.

Censura, repressione e proibizione sono cose brutte, per non dire del terrorismo. Però indicano una cosa che mi pare utile: le culture Pop, le nostre culture, stili e musiche non sono mai semplice intrattenimento, ma (talvolta, in certi contesti, in alcuni momenti) hanno la capacità di diventare strumenti di critica al pensiero dominante, veicoli di ribellione, liberazione e affermazione di se.

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