Jungle Fever

(testata: Rolling Stone)

Sembra sempre un concetto superato, poi gratti un pochino e sta ancora lì. E’ solo un luogo comune, ma assai duro a morire. Affascina, terrorizza, attrae, continua a generare controversie – ed è intimamente legato alla storia del R’n’R, che lo evoca già dal nome. Come tutti i miti è quasi certamente falso; eppure, proprio come il pelide Achille, il mito dell’Afrofallo sopravvive, prospera e divide ancora. Naturalmente nessun Afro-americano viene linciato perché ha rivolto la parola a una donna bianca; non esiste più la Big House, la casa del padrone della piantagione che disponeva delle vite, anche sessuali, degli umani di sua proprietà. Oggi i neri sono entrati al 100% nel discorso sociale contemporaneo, e in piena era Obama riesce difficile pensarci ancora. Eppure basta fare una passeggiata in una qualsiasi città del mondo per rendersi conto che la situazione è tutt’altro che risolta: incontrare una famiglia mista è una vera rarità, e per quanto appaia normalizzata, la famiglia Obama è certamente una famiglia black: per avere una coppia mista inquilina della Casa Bianca credo che dovremo aspettare ancora molti anni. Il mito della mazza colorata entra alla grande nella cultura Pop quando gli Afro-americani hanno potuto finalmente iniziare a esprimersi liberamente. Uno dei temi cardine della musica nera è infatti proprio il Sexual Braggadocio, l’affermazione della propria potenza sessuale. Mannish Boy, il capolavoro di Muddy Waters, è un inno alla sua incontenibile capacità di soddisfare le donne (naturalmente senza specificarne il colore: Muddy era pur sempre nato in una piantagione). Da Muddy a 50 Cent, passando per Isaac Hayes e Prince, la storia della Black Music è anche (e soprattutto) una storia di sesso, sudore e Oh baby…

Nella pornografia storica i maschi neri appaiono principalmente come elemento esotico e di perversione. Penso a certi filmini anni ’50 girati a Cuba, dove le donne nere sono quasi sempre rappresentate come schiave e i maschi sono quasi animali, che fanno sesso con delle bianche a comando del padrone, bianco pure lui. Dopo il boom dell’Hardcore nei primi ’70 (con Gola Profonda, rigorosamente all-white) si iniziano a vedere degli Afro-americani nel porno, ma sempre con parti rigorosamente caratteristiche: il giardiniere, l’autista, il selvaggio. Gli stereotipi del razzismo ci sono tutti. In questi anni inizia a circolare una famosissima serie di immagini che ritraggono un nero sorridente e sornione, con un pisello sproporzionatamente lungo e addirittura annodato. Questa serie è stata pubblicata da centinaia di riviste in tutto il mondo, corredata da didascalie più da Cronaca Vera che da porno: dal “Mostro di natura” a “Ricoverata in ospedale dopo una notte di follia con Bingo Bongo”. E’ la consacrazione grottesca dell’Afrofallo sulla scena mondiale del porno.

Solo negli anni ’80 aumenta la presenza di blacks nella pornografia, ma relegati a ruoli secondari. Le star maschili sono rigorosamente bianche, e non necessariamente dotate come John Holmes: sia di Harry Reems che di Ron Jeremy si dice che siano diventati famosi non per via delle prestazioni ma della simpatia, che consentiva allo spettatore (bianco) di identificarsi senza provare invidia. Oggi ci sono diversi pornostar maschi afro-americani, alcuni molto famosi. Hanno proprie case di produzione e linee di prodotti (come il lubrificante alla banana commercializzato da Mr Marcus), e sono entrati in quella subcultura pop che comprende anche Pam Anderson e i Limp Bizkit. Malgrado tutto però, le loro specialità restano sempre quelle: dozzine di partner bianche e bionde, e il cazzo gigante. Il più dotato si dice sia Mandingo. Lex Steele, forse il più famoso attore in circolazione, ha ovviamente pubblicizzato le sue (presunte) misure: 28 cm di lunghezza per 17 di circonferenza. Wow.

E’ però con la diffusione di massa del porno amatoriale che il fenomeno appare nelle sue dimensioni reali – e inquietanti. Nella società multirazziale americana, unificata dalle leggi ma separatissima negli usi e consumi, le relazioni tra etnie sono completamente dominate dai luoghi comuni: gli italiani sono mafiosi e mangiano bene, i cinesi lavorano molto, i neri c’hanno il cazzo grosso e scopano le bianche. Da parte loro, i vari gruppi hanno spesso legittimato questi preconcetti: gli italiani gestiscono ristoranti, i cinesi tengono aperto 24 ore al giorno e i neri apprezzano e spesso frequentano donne bianche. Il caso spettacolare di Tiger Woods (beccato con una serie di amanti, tutte bianche e bionde come la moglie) racconta un immaginario davvero molto comune e, secondo i militanti neri, profondamente radicato nella storia razzista di questo paese. Andando a vedere la situazione sul campo si scopre una realtà curiosa, e a tratti sconcertante, che sembra confermare quest’idea. Esistono dei club specializzati nel favorire gli incontri sessuali tra persone di razze diverse; gruppi di “Black gentlemen selezionati che offrono a coppie bianche di classe un’esperienza interrazziale”, che di solito consiste in una gangbang dove lui guarda e fotografa e lei è oggetto delle attenzioni del gruppo. La cosa notevole però è il linguaggio con cui si definiscono vicendevolmente: le donne sono delle White Hos (troie bianche) in cerca di Well Hung Niggers (negri ben dotati – da notare che questo termine è tabù negli States, tranne che non sia utilizzato da neri) e viceversa. Il mito del Black Dick viene perpetrato utilizzando gli stereotipi razzisti da ambedue le parti. Si amano, però si odiano, si temono, si offendono e quindi si attraggono, si disprezzano e si comprano, in una passion play dove gli elementi del gioco sono tabù, peccato, trasgressione, rispettabilità (e perdita della medesima), e che racconta di quanto siamo ancora distanti dalla politicamente attraente, ma forse per adesso davvero irraggiungibile, color blindness.

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