Il ritorno del Novecento

Mentre scrivo siamo in pieno conflitto: la Russia invade, l’Ucraina si difende, il mondo si indigna, l’Europa si riempie di profughi – povera gente come noi che scappa da quella che nel 2022 in occidente viene considerata la cosa più inaccettabile e ripugnante di tutte: la guerra. Non è sempre stato così, anzi: per secoli gli eserciti sono stati lo strumento principale per risolvere controversie tra stati, e le dispute territoriali, etniche, politiche, economiche si affrontavano a colpi di schioppo – strumento assai efficace anche per ridisegnare le carte geografiche. Nel ventesimo secolo poi abbiamo scoperto un genere di guerra ancora più estrema e intensa, quella mondiale, con nuove vittime, la popolazione civile, cioè degli innocenti. Guerre talmente atroci e totali che la Costituzione italiana, nata dalle ceneri del secondo conflitto globale, “ripudia la guerra” esplicitamente: 60 milioni di morti sono una cifra impensabile.

Quando esplode la Cultura Pop giovanile negli anni ’50 il mondo attraversa una fase di “Guerra fredda”, la contrapposizione nucleare tra grandi potenze (USA e URSS), e l’ipotesi di un conflitto globale diventa quella della fine del mondo – un motivo in più per ripudiare la guerra. Purtroppo però non tutti i paesi la ripudiano, e da allora ce ne sono state diverse, grandi e piccole, locali e internazionali (ma grazie al cielo non nucleari), scatenate per molte delle solite ragioni. Stavolta però i governi guerrafondai hanno dovuto fronteggiare anche un altro nemico: i movimenti pacifisti, che esistono da sempre ma che diventano universali anche grazie ai giovani (che le guerre le combattono) e alla Cultura Pop. La quale ha un modo assai sofisticato di diffondere le idee, un mix di coolness, sound e grandi ideali, di seduzione fisica e intellettuale, di musica che parla di noi ma articola anche dei pensieri che, se non sono già nostri, lo diventeranno immediatamente. Canzoni come Blowin’ in the wind o All you need is love sono insieme grandi capolavori musicali Pop e veicoli insuperabili di idee (magari utopistiche), impacchettate dentro canzoni decisamente cantabili (e risuonabili) interpretate da gente con dei capelli fantastici: una miscela inesorabile. Non solo: ambedue queste canzoni diventano inni dell’opposizione a un conflitto, quello del Vietnam, che a differenza della Seconda guerra mondiale veniva percepito da molti come asimmetrico e ingiusto. Di più: i giovani che negli USA abbracciavano gli ideali di pace e amore erano gli stessi che avrebbero dovuto combattere quella guerra. Ragazzi a cui, cantava Gianni Morandi nel ’66, invece piacevano i Beatles e gli Stones – proprio come a lui. Quella guerra segna l’atto di nascita del Pacifismo moderno, oggi una delle culture globali dominanti. Ecco anche il senso della nostra sorpresa per questa invasione: abbiamo davvero pensato che all you need is love valesse per tutti. Purtroppo invece non è così.

Per le generazioni di europei nate dopo il 1945 il rifiuto della guerra non passa attraverso la memoria. Qualcuno dei più vecchi ha avuto la fortuna di sentirsela raccontare dai nonni, ma il nostro atteggiamento è fatto sostanzialmente di etica, di pensiero morale che ci è arrivato attraverso una quantità di fonti diversissime, tra cui la cultura Pop – ne ho già scritto qualche mese fa proprio qui. Le guerre non sono solo la sconfitta della ragione, del dialogo e della soluzione negoziata, ma anche di un’intera cultura che va da Ghandi, Primo Levi e Gino Strada fino a Bob Dylan, Migliacci (paroliere di C’era un ragazzo che come me…) e Joe Strummer. Voci diversissime ma con un credo comune: no alla guerra. Tutte le guerre, quelle vicine e quelle lontane, i conflitti invisibili (come in Yemen dove si combatte ormai da molti anni nell’indifferenza dell’Europa) e quelli che abbiamo la ventura di guardare, sgomenti, in televisione.

Immagine: 1967, la celebre foto di Marc Riboud (Magnum) che ritrae la diciassettenne americana Jan Rose Kasmir nel 1967 durante una manifestazione pacifista al Pentagono.

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