Giganti

fugsC’è un’espressione inglese che mi piace molto: “Standing on the shoulders of giants”, stare in piedi sulle spalle dei giganti. Descrive molto bene come funzionano le culture: dalla filosofia all’arte fino alla scienza, nessuno inventa niente, si procede alzandosi sulle spalle dei giganti che sono venuti prima. Nella musica questo è molto evidente, e ognuno di noi ha un proprio pantheon di giganti senza i quali non esisterebbe il genere che ama. Alcuni sono universalmente riconosciuti, altri lo sono nel proprio genere, qualcuno lo è solo per pochi: abbiamo tutti le nostre fissazioni personali, no? Personalmente ho diversi giganti sulle cui spalle cerco di stare: scrittori come Hunter Thompson o William Burroughs, artisti come Joseph Beuys o Jenny Holzer, e ovviamente diversi musicisti. Qualcuno ovvio, altri meno: ho sempre voluto bene ai marginali, gli ostinati, i non curanti, quelli troppo occupati a fare per celebrarsi. Vorrei nominarne tre.

Di Demetrio Stratos (scomparso a 34 anni nel 1979) si parla sempre troppo poco. Eppure è stato uno dei musicisti più colti, eclettici e virtuosi della storia italiana, che ha saputo andare dal Pop da classifica (Pugni Chiusi dei Ribelli resta un classico italiano anni ’60) fino alla sperimentazione contemporanea: fu perfino invitato da John Cage a cantare in America. Ma naturalmente il nucleo centrale del suo lavoro è quello svolto dal ’72 in avanti con gli Area. Una band difficile perfino per gli anni ’70, dove si coniugavano le molte fissazioni dei componenti (tutti tecnicamente bravissimi e assai poliedrici): il jazz-rock, l’avanguardia, il prog, l’improvvisazione radicale, la politica. Gli Area in quegli anni erano costantemente in tour, dai palasport alle fabbriche e scuole occupate, spesso gratis e sempre con un atteggiamento fortemente orizzontale nei confronti del proprio pubblico: biglietti bassi, dischi sensati, senso di vicinanza e complicità. Oggi che ogni “artista” deve avere per forza un’opinione (perfino miserabile), mi piace ricordare Demetrio, pieno di talento e di idee illuminanti.

Tuli Kupferberg (1923/2010) appartiene a una categoria per me molto speciale: pionieri che hanno inventato molto di quello che sono oggi (e con me molti altri), e non lo fanno pesare. La sua bio sembra un romanzo: è citato nel poema Howl di Allen Ginsberg (1955), una delle sorgenti, via Bob Dylan, della cultura pop contemporanea. Nel 1964 insieme a Ed Sanders fonda i Fugs, tra le band seminali della controcultura, che mischiava musica, poesia, attivismo, performance, satira e quello spirito degli anni ’60 immaginato per primi proprio da loro. Il tutto sempre immerso in una nuvola di leggerezza, umorismo e consapevolezza che il mondo non si cambia stando sempre seri.

Dentro Jon Hassell (morto lo scorso giugno a 84 anni) ci sono caduto a vent’anni e non ne sono mai più uscito. Nella sua musica c’era molto di quello che mi interessava: il Raga indiano, l’elettronica, il senso dello spazio di La Monte Young o Terry Riley (Hassell in gioventù ha collaborato con entrambi), l’idea del Quarto Mondo: una musica dove i folclori si intrecciano fino a formare un genere a se. Il suo tragitto creativo lo porta a incrociare molti musicisti pop. Innanzitutto Brian Eno, che si appropria delle sue idee offendendolo a morte; Eno ha poi cercato di discolparsi per anni ma chiunque possieda il primo disco di Hassell, Vernal Equinox (1977), sa come stanno le cose. Alcune sue perle adornano diversi brani altrui, dai Talking Heads a David Sylvian, ma si tratta di episodi. Perché Hassell è sempre andato dritto, continuando a esplorare mondi, produrre dischi quantomeno interessanti (sempre coerenti e spesso sublimi) e evolversi nella direzione che gli sembrava migliore. Senza repackaging, revival, special guest (ci sarebbe stata la fila), ma sempre solo guardando avanti.

Tre giganti sulle cui spalle, immeritatamente, tento di arrampicarmi ogni giorno.

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