Power to the people

Uno degli effetti collaterali della rivoluzione digitale è la libera condivisione di moltissime informazioni; se consideriamo queste informazioni come “beni”, e certamente in alcuni casi lo sono letteralmente, allora la società digitale (nella quale stiamo iniziando a vivere) non è affatto liberista, ma anzi sembra più simile al socialismo – se non addirittura al comunismo. E non mi riferisco allo scambio dei file o all’hacking, pratiche che per molti hanno ancora il flavor della sovversione, ma a tutta quella quantità di informazioni utilissime, dai forum alle enciclopedie, o assai godibili, come certe pagine di Myspace o quei podcast esotici che non so voi, ma io ci passo delle serate. O i suoni per chi suona, i libri per chi legge, le ricette per chi cucina… Insomma quella rete dal basso, che poi tanto basso non è mai. Perché è vero che in rete si trovano un mucchio di informazioni fuorvianti, ma è anche assai facile verificarle, col risultato che Wikipedia non solo è affidabile quanto un’enciclopedia cartacea, ma è sottoposta a costanti verifiche e cambiamenti – inclusi i nostri.

Questa rivoluzione ha avuto un impatto enorme in certi settori – come ad esempio nel porno. La percentuale di clientela che si è spostata dalle produzioni delle Major agli indipendenti è incalcolabile, ma enorme. Le piccole case di produzione, che non esistevano prima dell’avvento del digitale, oggi si spartiscono la maggioranza del mercato. Molto spesso la base delle loro operazioni è online, se non addirittura la distribuzione (e sempre più spesso il broadcast, stile Youtube ma a pagamento). Una notevole percentuale di queste aziende produce materiale che una volta si sarebbe definito di nicchia, se non fosse che le nicchie non esistono più e i consumatori sono sempre più spesso trasversali e vogliono di tutto. Sempre più siti poi stanno adottando una strategia di outsourcing: propongono video autoprodotti in pay-per view, dividendosi i proventi con gli autori/attori/registi (o comprandosi direttamente il film). Naturalmente poi resiste una solida base di amateur, che si filmano e postano gratis, per la pura gioia dell’esibizione. E non sono pochi: una delle scoperte dell’essere digitali (lungimirante titolo di un saggio di Negroponte del ’95) è il potenziamento di alcune nostre caratteristiche, tra cui certamente la vanità, l’esibizionismo e la smania di apparire – a volte protetti dal piacevole semi-anonimato globale offerto dalla rete.

Purtroppo però, quando penso a questo scenario, mi spunta sempre un rimpianto, una malinconia. Perché, per mille ragioni tutte buone, quello che è avvenuto nella pornografia non è successo con la musica. Certo siamo tutti su Myspace, e volendo possiamo scambiarci dei file protetti da copyright senza pagare. Ma se immagino cosa sarebbe potuto succedere mi gira la testa: le piccole discografiche con la maggioranza del mercato, etichette online realmente funzionanti, musica di nicchia per consumatori trasversali (invece dei Jonas Brothers), le Major costrette a inseguire gli indipendenti (che un pochino succede, ma mai abbastanza), artisti premiati dal mercato per l’originalità della proposta, o addirittura per l’innovatività. Per mille ragioni non è successo, il 90% della musica su Myspace scimmiotta il mainstream Pop, e molti giovani artisti di talento continuano a vedere una copertina, o una comparsata su Mtv, come essenziali per farcela. In fondo gli ingredienti c’erano tutti, inclusi i mezzi di produzione praticamente gratis e la distribuzione planetaria. Ma c’è una speranza: i posteri. Sta arrivando alla maggiore età la prima generazione che non si ricorda la prima ricerca su Google, come noi non ci ricordiamo la prima telefonata, o il primo giro in macchina. E magari questa è quella buona.

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