Porno festival, anzi Porni

Da qualche anno a questa parte il termine Porno è stato appropriato da una certa scena culturale, e non descrive più solo il buon vecchio pornazzo, di qualsiasi genere si tratti. Oggi questa parola significa tutta una serie di prodotti (fiction, documentari, foto, arti visive e non solo) che, pur avendo molte delle caratteristiche della pornografia (la nudità, scene di sesso esplicito, ecc.), non si prefiggono lo stesso scopo. Il porno infatti si potrebbe classificare come un’arte (o artigianato, se preferite) funzionale, la cui prima ragione di esistenza è eccitare; in questo nuovo genere di pornografia invece questa funzione, quando c’è, è secondaria.

Proprio a questo nuovo e variegatissimo genere è dedicato il Berlin Porn Film Festival, giunto quest’anno alla seconda edizione. Decine i titoli presentati, tra corti, documentari, esperimenti di videoarte, etc. Il primo dato che salta agli occhi è che il linguaggio della pornografia è ormai entrato a pieno titolo nell’espressività contemporanea, e che oggi è possibile declinare queste tematiche in moltissimi modi diversi. Il secondo, ineludibile fatto è che la stragrande maggioranza degli autori presenti viene dalla scena gay: la cultura omosessuale, si sa, riflette molto su se stessa, e il porno è certamente un tema che si presta assai bene. Il terzo fatto evidente è che Berlino si conferma una città all’avanguardia nel panorama culturale contemporaneo, forse l’unica dove oggi è possibile presentare produzioni di questo genere e lanciare ben due concorsi (di cui uno, Cum2cut, di corti realizzati durante il festival).

Si sono visti film davvero assai diversi, e praticamente irreperibili altrimenti. Non esiste un circuito di distribuzione ufficiale per questi prodotti: alcuni si trovano sul web, altri sono potabili per il satellite, ma la maggior parte vive in un curioso demi monde – troppo intelligenti per il circuito del porno, troppo oltre per tutti gli altri. Cominciando dai “porno-porno” va segnalato il ripescaggio del classico anni ’70 The opening of Misty Beethoven, girato tra Roma, Parigi e New York e la cui sceneggiatura (derivata da un classico letterario inglese) è la stessa di My Fair Lady e Pretty Woman: a 30 anni di distanza sembra veramente venire da un altro pianeta. Naturalmente c’è spazio anche per produzioni più recenti, come Sklaven der lust – diretto da Julia Ostertag e distribuito nel circuito globale del porno (quindi forse anche sotto casa tua). Ampio lo spazio dedicato a corti e mediometraggi; come Skateboard Kink Freak, una mini-epopea lesbo nel mondo dello skate sex, o Pornographic Apathetic, buffissima prova di recitazione di un’orgia a tavolino.

Ma a mio modesto avviso le vere perle di questo festival sono i documentari, come quello che ha aperto il festival, 5 sex rooms und eine küche, che racconta la vita di un bordello fetish, o l’inquietante WADD: The life and time of John Holmes. Davvero efficacissimi il documentario su Albrecht Becker, tra gli ultimi sopravvissuti alla persecuzione nazista degli omosessuali (e successivamente pioniere di tatuaggi e piercing) è il divertentissimo The Last Pimp, che racconta le gesta di Bert Wollersheim (nella foto) – definito da Coolio (uno che se ne intende) “The biggest pimp in the world”. Insomma un festival davvero moderno, verrebbe da dire quasi urgente, dove molti elementi della cultura contemporanea vengono messi in fila, forse per la prima volta. Certo sarebbe bello poter vedere questi film anche in Italia ma non ci conterei: un evidente dato comune a tutti i nostri politici, oltre la bruttezza, è il bacchettonismo senza fine.

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