Pere al cioccolato e canne da zucchero

Tra i punti di forza del Made in Italy c’è la qualità di cibo e vino: questa eccellenza ha il duplice effetto di far salire il PIL e fare dell’Italia una delle mete turistiche eno-gastronomiche più ambite. Frotte di goderecci sulle mille rotte del mangiare e bere nostrano, che invece della guida turistica usano quella Michelin. Raffinati intenditori che perseguono e reiterano il piacere lussurioso del palato e della lingua, e l’effetto che queste sensazioni hanno sulla loro psiche.

Però c’è qualcosa di malsano nel turista della masticazione. Uno sguardo insolitamente avido, un rapimento troppo estatico ci ricordano che cibo e alcolici sono anche le principali sostanze oggetto di abuso in occidente. Le decine di migliaia di morti dovuti all’alcol ogni anno nella sola Italia, e la vasta gamma di disturbi alimentari, hanno certo radici diverse dal palato fine, ma esiti non troppo distanti. Si può morire di Sassicaia 1985 (circa 1000 euro a bottiglia) come di Tavernello. Il punto non è cosa, ma sempre come.

Idem per il cibo; chi tende a ingrassare deve starci attento, e mediare il piacere con la ragione. Non è difficile, lo facciamo in molti, benché le nostre città siano ricchissime di offerte cibarie sopraffine. Ma basta lasciarsi andare un attimo e il guaio è fatto: come il simpatico Edoardo Raspelli, recensore di cibarie su La Stampa (quindi dotato di ampi strumenti culturali), che a furia di leccornie si è trasformato in una pera umana – simbolo vivente della dipendenza da cibo.

Nelle réclame di superalcolici straniere compare la dicitura Drink Responsibly, bere responsabilmente. Giusto: sappiamo tutti che si può fare. Idem col cibo, essenziale per la sopravvivenza ma di cui non si deve abusare: è fonte di gravi malattie e pure di morte, se non ci si sta attenti. Quindi siamo addestrati a resistere a grandi tentazioni, e la maggioranza della popolazione ci riesce senza sforzo. Ma allora uno si chiede: come mai invece sulle droghe ci si regola così diversamente?