Non tutti tutti

Scrivo questo articolo due giorni dopo la strage di Parigi. Quando lo leggerete avrete già visto e sentito tutto, dalle raffinate analisi ai commenti stupidi, dai titoli inaccettabili alle mille manifestazioni di solidarietà. Naturalmente c’è dello sdegno, del dolore, dell’incredulità, e una generale (umanissima e comprensibile) incapacità di capire tanta ferocia: sparare sulla folla a un concerto, poi ricaricare e farlo di nuovo, guardando in faccia le tue vittime – tuoi coetanei – è chiaramente un’escalation dell’orrore. E’ altrettanto chiaro che nessuno sa bene cosa fare, e come reagire. Ma, al netto di aberrazioni razziste, non mi sento di biasimare nessuno. Nemmeno quelli, non pochi, che hanno avuto reazioni assai distanti dalla mia. Anche loro, come tutti noi, si sentono spaventati e impotenti. Mi chiedo: cosa possiamo fare?

Io non lo so, e mi dispiace molto. Perché se sapessi cosa fare, se lo sapessimo, potremmo farlo. Invece tutte le strategie che mi vengono in mente sono a lungo termine, ne ho parlato in passato anche su questa pagina. Ma la domanda mi pressa e, a quanto vedo sui social network, non sono da solo. Eh sì, perché è lì che molti di noi hanno espresso questo dilemma, e cercato una risposta. In molti casi non rendendosi esattamente conto di dove stavano, cosa stavano facendo e a chi si rivolgevano. Siccome mi pare una cosa seria, con delle conseguenze importanti, vorrei dire la mia su questo aspetto specifico.

I social network sono tali in quanto ci connettono con altre persone (mi riferisco a Facebook in particolare; Twitter è diverso, ma non poi tanto). Tutte le persone? No. Soltanto coi nostri amici, e quelli che ci seguono. Quindi, per esempio, è stato uno strumento eccellente per sapere se i vostri amici che si trovavano fisicamente a Parigi stavano bene, o per far sapere ai vostri contatti parigini che eravate loro personalmente vicini in un momento così difficile per quella città. Soltanto a loro però, perfino se il vostro diario è pubblico.

Purtroppo la grande maggioranza delle persone non sembra aver capito il meccanismo, e nei propri post appare rivolgersi al mondo intero. Dire di essere disgustati di fronte a tanta barbarie è sacrosanto. Ma dirlo come se si fosse i soli fa un po’ pensare, salvo a avere amici davvero particolari. Pubblicare l’immagine (di dubbio gusto, secondo me) della Torre Eiffel dentro al simbolo della pace, o virare coi colori della bandiera francese le foto dei profili Facebook (servizio offerto dall’azienda medesima) avrebbe senso se potessimo mostrarle ai militanti dell’I.S. Però non si può, quindi io vedo la tua, tu vedi la mia, ce le rimiriamo a vicenda e ci consoliamo essendo tutti parigini per un giorno. Ecco, questo mi pare il senso ultimo dello sdegno su Facebook: confortarci l’un l’altro, e illuderci di dire qualcosa al mondo mentre ce la stiamo dicendo a vicenda. C’è perfino chi si rivolge direttamente ai terroristi, esprimendo sdegno e sfida. Chi spiega a queste persone che quel post lo leggerà sua cugina?

Paradossalmente i social network del passato, il bar, l’autobus o il barbiere, offrivano una platea più variegata – e a volte si litigava furiosamente. Perfino le bandiere della pace appese ai balconi erano più efficaci: esisteva la possibilità che un guerrafondaio le vedesse per caso. Facebook invece non funziona così. Quindi la domanda rimane senza risposta: cosa possiamo fare? Di nuovo: non lo so. Però quello che dovremmo smettere di fare è illuderci di cambiare il mondo con delle condivisioni, cliccando mi piace, dipingendo le nostre foto e ripostando dei memi. Non solo non serve, ma crea una pericolosissima illusione di attivismo. Col risultato che ci pare di aver partecipato a qualcosa, mentre abbiamo solo confortato noi stessi e rinforzato le nostre opinioni: utile, ma solo a noi. Ieri sera a Parigi la gente era in strada, per riprendersela. Magari dovremmo fare tutti lo stesso.

 

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