Maledetta Musica

Di tutte le arti, oggi la musica mi pare tra le più sfortunate – forse proprio quella messa peggio. E non mi riferisco alla qualità della produzione nel 2012 (certa bella, altra meno, come sempre) ma al suo destino d’uso rispetto alle altre arti. In parte questo destino è dovuto alla potenza del suono – che rimane un’esperienza forte e misteriosa – e alla sua capacità di innestarsi nella realtà come nessun’altra arte. Chiunque abbia mai fatto una passeggiata col walkman (o un viaggio in auto con la musica) sa esattamente di cosa parlo: suono e visione si amalgamano nella stessa emozione, e ci si ritrova in una sorta di realtà aumentata. Nessuna delle altre arti ha la capacità di portarci così altrove; perfino i quadri più sublimi della storia hanno un elemento essenziale che invece è assente nella musica: la cornice. A differenza del teatro non c’è quella sorta di patto che ci impone di ignorare che la scena è di cartone, o che Amleto è sovrappeso; la musica non richiede nessuna negoziazione con lo spettatore. E, dall’invenzione della registrazione, può coglierlo ovunque, anche di sorpresa (operazione molto più ardua per un quadro, un film o una poesia). Nessuna arte come la musica influenza il nostro umore. Nessuna arte come la musica innesca il movimento del nostro corpo, nei casi migliori in modo incontrollabile e terapeutico. Nessuna arte come la musica interagisce col nòcciolo profondo del nostro essere umani.

Cose meravigliose, che però oggi sono anche la principale dannazione della musica – non solo ormai onnipresente, ma utilizzata come riempitivo, come antidoto all’Horror Vacui. Quando lavoravo alla radio negli anni ’80 feci una piccola battaglia per abolire il concetto di “stacco musicale”, mortificante per la musica ridotta a fare da boa tra una parlata e l’altra. La risposta fu adeguata: si introdusse musica di sottofondo alle chiacchiere. Quale musica? Qualsiasi, tanto sta sotto. Oggi sappiamo che la musica sta sotto a tutto: entrare in un supermercato è diventata un’esperienza sonora – frequentemente orribile. Di più: nei negozi la musica è pensata per sedurre i clienti e integrare il “mood” dei prodotti: mobili di legno? Marimbe a go go. Soprammobili giapponesi? Pianismo sparpagliato. Spesso poi la musica non fa solo da riempitivo, ma viene utilizzata direttamente per scopi a volte abietti e immondi. Una volta il massimo della perversione pubblicitaria era di inventare dei semplici motivetti, jingle che si incastravano nella testa dei potenziali clienti (o dei loro ignari figli) generando motivazione all’acquisto. Poi si è capito che era assai più efficace (e efferato) utilizzare della musica pre-esistente, possibilmente nota (ma non famosissima), con un suo carattere preciso, i pubblicitari direbbero “un immaginario”, che si estendeva anche al prodotto reclamizzato. Ricordo una campagna per dei jeans con Mannish Boy di Muddy Waters; la sua voce antica, poderosa e piena di significato che prestava la sua magnificenza a dei pantaloni del cazzo, per essere poi brutalmente sfumata dopo 30 secondi.

Ecco la maledizione della musica, unica arte alla quale si può fare questo. Solo la pittura ha avuto un destino simile. Però un quadro da pizzeria è spesso pensato per essere tale, e un Bacon non funzionerebbe altrettanto bene. La musica invece è perfetta, vittima della sua sublime capacità di riempire il vuoto, entrarci dentro e farci qualcosa: il suo bello, e oggi purtroppo anche il suo brutto.

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