Le parole ci parlano

Ce l’ha spiegato bene William Burroughs, e l’ha ribadito anche Laurie Anderson nell’omonima canzone: Language is a virus. Non solo, ma aggiungerei che il linguaggio stesso, oltre a essere un morbo, può esso stesso essere colpito da malattie, sindromi e deficienze. Attenzione: nessuno è immune. Non voi, non io, ma neanche l’Accademia della Crusca: le malattie del linguaggio, comunque le si intendano, sono universali.

Secondo Burroughs (intervistato da Klaus Maeck nel film Commissioner of Sewers), Il sintomo più ovvio dell’infezione sarebbe che il linguaggio è “compulsivo e involontario. E’ molto difficile interrompere il flusso di parole (nel pensiero); gran parte delle persone non ci provano, ma se lo facessero si accorgerebbero che è estremamente difficile. Quindi il linguaggio è qualcosa che accade contro la nostra volontà.” Provare per credere. Ma Burroughs va oltre, introducendo un altro concetto utilissimo: “La parola sembra essere un organismo vivente, che può diventare pericoloso.” Un’idea fulminante, che ognuno di noi può esplorare di persona: come nasce il linguaggio? Come si riproduce? Esiste un Darwinismo delle parole? Come mai ci troviamo a usare tutti le stesse espressioni, fino a farle diventare odiose? E’ possibile che siamo tutti portatori non sani di virus linguistici? E se così fosse, c’è una cura?

Franco Fabbri, nella sua newsletter (che spesso contiene frasi e citazioni utili), scrive: “Alcune delle parole ed espressioni (in ordine alfabetico) che rendono istantaneamente inutili le cure antiipertensive del mio cardiologo: a 360 gradi, alla grande, assolutamente no, assolutamente sì, bipartisan, blindato, cantautorato, casta, ci sta, col botto/ha fatto il botto, come dire, criticità, d’antan, declinare, devastante, dialogare, è nel mio/suo/loro DNA, (di) eccellenza, ed è polemica, fare la quadra, fare sistema, fare spogliatoio, gattopardesco, gogna mediatica, in grande spolvero, in qualche modo, Mattarellum (e Porcellum, Italicum, Consultellum), (i) mercati, meritocrazia, mettere dei paletti, mozzafiato, piuttosto che, problematiche, quant’altro, quello che è, quelli che sono, sdoganare, senza se e senza ma, silenzio assordante, (questo o quello) spacca, spiritualità, straordinario, tolleranza zero.”

Una lista interessante (che potrebbe andare avanti a lungo: kermesse, mitico, un attimino/momentino/minutino, attenzionare, ecc.), e lievemente inquietante: sono parole che in qualche misura usiamo quasi tutti, io di sicuro. Non solo, ma forse anche inquietante potrebbe far parte della lista. E allora, come si fa? Franco, che è un raffinato intellettuale, me la spiega così: “Sì, il linguaggio “ci parla” (o, meglio, siamo parlati dal linguaggio). Un po’, però, si può resistere: mi sembra che la capacità di resistere dipenda per così dire dalla profondità, da qualcosa che sta sotto la superficie.” Ecco, questo è uno sforzo che si può provare a fare: cercare le parole un pochino sotto la superficie. L’altro tentativo che si può fare è quello di ascoltarsi. Pare ovvio, ma spesso l’impressione è che le persone siano sorde a se stesse, in preda ai sintomi dell’avvelenamento, completamente “parlate” dal linguaggio. Basta accendere la televisione per accertarsene: alcuni conduttori (per esempio di telegiornali, non faccio nomi che tengo famiglia) sono evidentemente allo stadio terminale, e la connessione bocca-orecchie-cervello si è fusa completamente. Naturalmente i media sono tra i principali untori della lingua, e il linguaggio grossolano della tv, e dei media in rete, è una delle ragioni del degrado linguistico.

Sul linguaggio dei politici invece sono tutti d’accordo: secondo Burroughs “serve a confondere, invece che a spiegare”. Fabbri è più disilluso: “I politici, purtroppo, oggi sono le persone più superficiali di tutte.” In certi casi raggiungendo un paradosso letale: più parlano, meno hanno da dire.

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