L’algoritmo senza pietà

Nel panorama dei nuovi pericoli digitali, oggi ce n’è uno che spicca su tutti: il maledetto, onnipresente algoritmo. Siamo circondati: dalla Fidaty a Google, da Facebook a Corriere.it, è tutto un florilegio di algoritmi. Alcuni grossolani, altri raffinati e sorprendenti, qualcuno infame, oggi gli algoritmi sono di gran lunga il nemico pubblico numero 1. Il concetto è semplicissimo: “Un algoritmo è un procedimento che risolve un determinato problema attraverso un numero finito di passi elementari.” (da Wikipedia) Un buon esempio è il celebrato e segretissimo algoritmo di Google search. Il quale è in grado di individuare, attraverso “un numero finito di passi elementari”, i risultati più pertinenti di una ricerca, e mostrarceli in ordine di rilevanza. Ma naturalmente questo è il grado zero dell’algoritmo. Google infatti memorizza le ricerche che abbiamo fatto tutti noi (un numero finito, benché inimmaginabile). Quindi ci conosce davvero molto bene, come d’altronde Facebook, Apple, certamente la Fidaty Card e forse perfino il sonnolento Corrierone. E potrebbe decidere (e magari ha già deciso) di separare il traffico, per esempio fornendo risultati diversi a seconda di variabili economiche, razziali, o sessuali. Il “non si affitta a gay” che ha fatto tanto scalpore in Italia, potrebbe diventare una variabile dell’algoritmo: non mostrare questo annuncio a persone omosessuali (o di colori diversi dal mio, o che hanno pochi amici su Facebook). Ovviamente, nell’epoca delle fake news, l’opinione delle persone si maneggia attraverso raffinati algoritmi, disegnati per rafforzare opinioni, smuovere gli indecisi, convincere le menti semplici. Tutti abbiamo notato che gli algoritmi sono assai imperfetti, a volte grossolani, spesso proprio stupidi, come quello che ci mostra le pubblicità sbagliate su Facebook. Però sappiamo anche tutti che è solo una questione di tempo, e che se ieri il traduttore di Google faceva solo ridere, oggi inizia a funzionare sorprendentemente bene.

Le reazioni sono diverse. C’è chi si abbandona e regala i propri dati senza freni, “tanto ormai sanno già tutto”; tiene costantemente accesi Wifi e Bluetooth, clicca ogni cosa, installa sempre. Probabilmente poi ha un’esperienza commerciale esaltante, e magari è contento/a di ricevere delle email “proprio sul prodotto che cercava”. C’è chi invece cerca di difendersi, attivando opzioni di privacy sui social media e sulle app, rifiutandosi di installare software troppo nasuto, come Facebook o Google, o restringendo il tracking geografico. Io cerco di starci attento, ma capisco che è una battaglia difficile. Le possibili soluzioni mi sembrano sostanzialmente due, una legata all’altra.

L’unico possibile freno all’algoritmo malvagio, al momento, è l’azione politica, e l’adozione di standard che impediscano la raccolta e l’uso indiscriminato dei dati. Ecco come mai l’Unione Europea periodicamente multa i giganti del Web: si stanno definendo dei confini, individuando dei limiti, e qui in Europa siamo giustamente preoccupati. Purtroppo non è così ovunque, ma soltanto attraverso l’adozione di politiche di regolamentazione si può immaginare di arginare il problema. E tra queste ce n’è una che mi pare essenziale: svincolare gli smartphone dal software, e favorire la creazione di sistemi operativi mobili indipendenti, non di Apple o di Google, creati apposta per impedire la raccolta dati e proteggere la privacy. Questo passaggio mi sembra cruciale: così com’è stato per i computer in passato (infatti oggi ognuno ci installa quello che crede), dovrebbe essere per gli smartphone.

L’alternativa è un mondo brutto, dove magari fare shopping di scarpe è un’esperienza bellissima, ma dove le opinioni non si incontrano mai, e il consenso regna sovrano. Un mondo dove tutti la pensano come noi, nel quale i prodotti ci assomigliano e Google sembra sapere cosa vogliamo prima ancora che glielo chiediamo, forse prima ancora che lo vogliamo. E lo sa per certo: gliel’ha detto l’algoritmo, a cui l’abbiamo detto noi.

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