La doppia vita di Johnny

Una delle figure più curiose della storia della musica afro-americana, che pure ne contiene una certa quantità, è certamente quella di Johnny Guitar Watson (1935 – 1996). Che non solo ha una biografia romanzesca, ma musicalmente è una figura quasi unica: ha avuto almeno due carriere distinte, ambedue di grande successo, riuscendo a rinnovarsi pur rimanendo assolutamente genuino – forse perfino troppo.

Tecnicamente JGW appartiene alla seconda generazione di bluesmen elettrici, essendo la prima quella di Muddy Waters, John Lee Hooker e T-Bone Walker, il chitarrista che Watson cita come sua influenza primaria (e non solo lui: Walker è un gigante del blues). Inizia a suonare prestissimo sia come session man che da solista, e già nel ’53 produce il suo primo, bizzarro capolavoro: la strumentale Space Guitar, nel quale esplora l’uso di feed-back e riverberi. Lo stile selvaggio e sperimentale, accoppiato al sua enorme senso del blues, influenzerà una generazione di chitarristi rock, primo fra tutti Frank Zappa (con cui JGW collaborerà saltuariamente fino alla fine), che ha dichiarato: “La sua canzone Three Hours Past Midnight del ’56 mi ha spinto a diventare chitarrista”. Tra gli altri influenzati da Watson ci sono Jimi Hendrix, Stevie Ray Vaughan e perfino Etta James, che dichiara: “Ho preso tutto da Johnny”. La sua musica è blues urbano, e la sua chitarra ne racconta gioie e dolori. Elementi distintivi sono però anche la leggerezza e l’umorismo, che accoppiati alla sua esuberanza producono un effetto pop davvero notevole. Watson canta pure benissimo, ed è molto a suo agio coi generi originari della musica nera americana: le dirty dozen, l’uso delle antifone, il talking blues, il gospel e il jazz. Tutti elementi che distilla nel suo stile chitarristico, vocale, compositivo e di showman.

Nel corso dei ’60 JGW collabora con mezzo mondo, da Little Richard a Herp Albert passando per George Duke e Johnny Otis, e anche la sua musica si evolve. Inizia a definirsi The Gangster of Love, e il suo repertorio e guardaroba mutano: al blues si aggiungono prima il soul e poi il funk, del quale Watson diventa uno degli interpreti più raffinati e inesorabili. Il suo aspetto è furibondo: denti d’oro, catenazze, brillantoni, cappelli e cappotti in perfetto stile Pimp californiano. C’è addirittura chi sostiene che in quel periodo facesse davvero il magnaccia; sibillino il suo commento: pur nutrendo sentimenti contrastanti sulla prostituzione, ammetteva che “rende più della musica”. I suoi album degli anni ’70 sono strabilianti, e sono stati imperdonabilmente snobbati dalla critica anche europea (e italiana) solo per via delle paillettes e delle acconciature sulle copertine, o dell’ignoranza di certi titoli come A Real Mother For Ya (1977, il suo maggiore successo), Ain’t That a Bitch o la campionatissima Superman Lover.

JGW continua a mutare negli anni. Racconta la moglie: “Era sempre al corrente di quello che succedeva nella musica. Era orgoglioso di poter cambiare nel tempo e non vivere nel passato”. Che invece è quasi sempre il destino dei grandi interpreti della popular music come ad esempio Buddy Guy, suo coetaneo e grande chitarrista blues. Anche qui sta la sua grandezza: aver saputo svolgere un ruolo di collegamento fondamentale tra la vecchia scuola dei chitarristi elettrici, la prima, e le nuove generazioni. Non solo quella dopo, cioè Zappa e Vaughan, ma molte altre a venire. E di averlo fatto senza enfasi, senza mai storicizzarsi o riproporre il passato ma guardando sempre avanti, e riuscendo a mantenere contemporaneo il suo stile per quasi trent’anni, senza tradirne lo spirito. Segno inequivocabile della sua grandezza.

PS (web only): Già che ci siamo, avendo aggiunto link per tutti i brani citati, volevo aggiungere la mia JGW hit del mese (12/11), la furibonda, raffinatissima Tarzan, dove si passa con facilità dal demente (“ho una ragazza così bella che mi fa venire voglia di dondolarmi da una liana”) al sublime (contiene tracce di Steely Dan, e certamente un segno dell’influenza di Watson su uno dei più stimati chitarristi di sempre, Larry Carlton).

One thought on “La doppia vita di Johnny

  1. “Quel pezzo [Three Hours Past Midnight] e’ probabilmente una delle cose piu’ importanti che abbia mai sentito in vita mia… Quelle che Watson faceva non erano semplicemente scale pentatoniche… Una delle cose che piu’ ammiravo in lui era il suo tono, quel suo tono duro, un po’ cattivo, aggressivo e penetrante; un’altra era il fatto che le cose che suonava spesso venivano fuori come esplosioni ritmiche sopra il beat costante dell’accompagnamento”.
    F. Zappa, in N. Spavento, Franklin Zappa. Il don Chisciotte elettrico, Odoya, 2010, p. 33.

    Cia’
    Sandro

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