John Lee Hookerness

Una delle interessanti discussioni sulla musica elettronica, e sulle possibilità offerte dalla tecnologia a chi vuole fare musica, riguarda il grado di conoscenze teoriche che si dovrebbero avere. Molti sostengono che sia importante conoscere le regole dell’armonia, della melodia e del ritmo, per avere totale libertà di scrittura. Quest’idea è certamente vera nella musica classica e nel jazz moderno, ma entra in crisi prima col rock’n’roll e poi con l’avvento dei campionatori, che consentono di fare musica con altra musica, muovendo masse sonore in un modo solo lontanamente paragonabile alla musica tradizionale. E infatti c’è un’altra corrente (per la verità non molto popolosa) della quale faccio parte anch’io, che invece sostiene che non sia essenziale conoscere queste regole (consapevolmente: abbiamo ascoltato talmente tanta musica nelle nostre vite che alcune di queste forme ormai le conosciamo d’istinto), ma che anzi a volte sia dannoso.

Nella storia della popular music queste due scuole di pensiero sono presenti, in forma implicita, da sempre. E ognuno di noi, salvo casi davvero estremi, apprezza musica di ambedue le specie. Ascolto Quincy Jones e Frank Zappa (esponenti dell’ala competente), ma anche i Modern Lovers e Dub Taylor (della sponda istintiva). Mi piacciono sia Gil Evans che Count Basie, sia Stockhausen che Kid Koala.

Le ragioni di chi sostiene l’educazione musicale sono ovvie e sensate. Ma quelle di chi ne diffida non mi sembrano meno interessanti. Prendiamo ad esempio un gigante: John Lee Hooker. Quali sono le principali differenze tra JLH e Geppo Svisata, diplomato a pieni voti in canto, chitarra e composizione al Berklee college of Music? Geppo conosce perfettamente il suo strumento, arriva a fare trenta note al secondo ed è in grado di farci quello che vuole: suona jazz, blues, pop e perfino la polka, se glielo chiedi. Compone in diversi stili ed è in grado di armonizzare una melodia in sei modi diversi. Canta Sinatra, Elvis e Diana Krall, ma anche gospel e musical: è un musicista completo.

John Lee Hooker invece usava solo tre dita, suonava col pollice e usava accordature aperte, che consentono modulazioni limitatissime. Faceva interi concerti nella stessa tonalità e si accompagnava battendo forte il piede sul palco. La sua musica è spesso costituita da una singola misura ripetuta, con variazioni ritmiche e di volume. Le strutture hanno delle strofe variabili e irregolari, diverse anche dentro lo stesso pezzo. La sua voce, grave e minacciosa, sa fare solo un genere: il suo. Parrebbe che Geppo sia migliore, ma sappiamo che non è così: è un onesto professionista, mentre John Lee Hooker (1917/2001) è venerato come un semidio.

La sua forza sta nella Hookerness; lui non fa tutto quello che vuole, ma solo una cosa: quello che è. Il bello è proprio che resta sempre lui, perfino nelle produzioni patinate degli ultimi anni. Un altro così era Ray Charles, che a Sanremo prese il pezzo di Toto Cotugno e lo Charlesizzò al punto che alla fine pareva suo. Se invece uno conosce tante note poi alla fine le userà tutte; se ha una soluzione pronta per ogni evenienza è facile che alla fine la sua musica risulti prevedibile (con grandi eccezioni, ovviamente). Invece poi c’è il blues il funk, il rock’n’roll e la quasi totalità della musica elettronica: musica che non vuole fare tutto, la cui forza è anzi nel fare con poco, a volte quasi niente. Perché una musica con poche opzioni è una musica inevitabile. E se per caso è anche sublime, allora non ce n’è più per nessuno.

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