In realtà

Uno dei generi più in voga degli ultimi anni è sicuramente il documentario – cinematografico, televisivo o online (come il bellissimo e agghiacciante Gun Nation, parte di una serie di corti prodotta dal Guardian). Tanto ci piace questo tipo di intrattenimento che oramai se ne producono delle serie (come Making A Murderer, sulla terribile e complicata vicenda di Steven Avery, o The Jinx, la terrificante storia di Robert Durst), che fanno grandi ascolti. Dietro questa fascinazione per i documentari ci sono molte ragioni, assai complesse. Fattostà che ultimamente la realtà batte la fantasia. La parola realtà, in inglese Reality, mi pare un buon punto di partenza: i Reality Show sono forse anche un po’ documentari? Raccontano la realtà? Quasi, ma non esattamente – come sappiamo tutti. C’è una regia, il montaggio, e degli autori. La vicenda “reale” che vediamo è costruita usando gli strumenti della narrativa, e il risultato non è mai la realtà.

L’ultima ondata di Reality propone una interessante commistione col documentario. Gli esempi sono molti: Outback Truckers narra le gesta dei camionisti australiani alle prese col deserto. Gold Rush mostra l’epico operare dei moderni cercatori d’oro. Alaskan Bush People segue le vicende di una famiglia selvaggia che vive nella foresta. Il mio preferito è The Last Alaskans, lirica elegia sulla vita sperduta delle sole sette famiglie autorizzate a risiedere in un immenso parco naturale al circolo polare artico. La lista è infinita, e hanno tutti in comune lo stesso tratto: una narrativa prestabilita (il deserto australiano non perdona, chi non risica non rosica, vivere selvaggi è difficile ma ci mantiene bambini dentro, la poesia della solitudine senza confini) declinata in ogni puntata, per rafforzarla attraverso la ripetizione. Non si ammettono scostamenti: se il bellissimo Heimo Korth e sua moglie (ultimi alaskani), che abitano al Circolo Polare Artico in una casa di tronchi e muschio, si comprassero uno chalet prefabbricato stile svizzero, non funzionerebbe. Così come se gli Alaskan Bush People aprissero un resort: sarebbe un altro reality. Ma come, lo show non era su quelle persone? Non esattamente.

Questo ci porta alla domanda successiva: ma i protagonisti saranno veri? Anche questa risposta non mi pare semplice. Tecnicamente, alcuni lo sono di più (i Last Alaskans, pare), mentre altri (come forse i Bush People) meno. Però non mi pare questo il punto. Quando si accende una telecamera, succede una cosa assai interessante: le persone iniziano a rappresentarsi. Certo, sono sempre loro, ma in una versione narrata – anche grazie alla regia, al montaggio e all’uso sapiente di audio e musica. E finiscono per dire, e fare, cose che confermano sempre la narrativa dello show. Esattamente come non li vediamo mai andare in bagno, non li sentiamo rimpiangere una bella bistecca. Eppure, dopo mesi che campi di scoiattoli, secondo me il pensiero ti viene. Però la narrativa è che è tanto bello, tanto selvaggio e duro e quindi bellissimo – specie a vederlo dal divano, col riscaldamento a palla.

Per i documentari giornalistici il discorso sembrerebbe diverso. Però, a pensarci bene, anche questi hanno sempre una propria narrativa, un angolo. E in fondo forse è anche per questo che ci piacciono, specialmente se rinforzano le nostre opinioni. Se credi che sfruttare gli animali sia sbagliato (opinione assai diffusa) guarderai Blackfish, la triste storia dell’orca Tilikum, o Whale Wars, le avventure della bella e buona Sea Shepherd (piena di adorabili hipster) contro i brutti e cattivi balenieri giapponesi. Se pensi che qualcuno complotti contro l’umanità, Zeitgeist confermerà tutti i tuoi sospetti. Se critichi la politica americana, ti piacerà l’intera filmografia di Michael Moore. La tecnica è sempre la stessa: regia, montaggio, musica, e una narrativa che ce la canta e ce la suona come vuole l’autore. Buon intrattenimento, magari pure informativo, ma certamente non il miglior modo per accertare la realtà delle cose.

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