Il mistero dell’orecchio senza palpebra

noise area iconUna delle materie che insegno con grande piacere ogni anno è Psicologia della percezione, che nel primo anno del corso di Sound Design nella quale è inserita, si chiama “Ascolto”. La domanda è legittima: ma che c’è bisogno di un corso per imparare a ascoltare? Non bastano le orecchie? La risposta è certamente sì: le orecchie bastano, ma bisogna imparare a usarle come si deve. L’ascolto infatti è una delle esperienze più semplici (la voce della mamma, il paesaggio sonoro dell’infanzia), e insieme più complesse e profonde. Ci provoca immenso piacere, ma anche turbamento e disperazione, ci consola e ci rassicura, ma può scassarci la minchia come pochissime altre cose. E, comunque la si guardi, è un’esperienza spesso misteriosa.

L’orecchio è uno strumento molto sofisticato, che usiamo in mille modi oltre che per ascoltarci canzoni. L’equilibrio dipende da lui, ma anche la certezza che, di notte, in casa sia tutto tranquillo. L’orecchio, che non ha palpebra o direzionalità come l’occhio, usa il cervello per selezionare le informazioni rilevanti. Ecco come mai, anche in una situazione rumorosa, sentiamo subito se qualcuno ci chiama. Il suono organizzato in musica (certamente la forma più sofisticata di disegno del suono) ha effetti non paragonabili a nessuno delle altre esperienze sensoriali: può farci piangere, mettere irrefrenabilmente in moto il nostro corpo, o annoiarci a morte. Per secoli la sordità è stata considerata (erroneamente) una disabilità mentale, dato che chi non sente dalla nascita ha difficoltà a esprimersi verbalmente. Il linguaggio infatti ha una stretta relazione con l’emissione fisica delle parole: pare che mentre si legge, i muscoli della gola facciano dei piccoli movimenti, corrispondenti alle parole che si stanno leggendo.

La principale differenza con gli altri sensi (forse con l’eccezione del gusto, e di suo cugino l’olfatto) è che l’ascolto si basa sul tempo, che è la superficie del suono (assieme al silenzio, o meglio all’idea del silenzio – che nella realtà non esiste). Un brano musicale si sviluppa nel tempo, e se una bella canzone durasse 7 secondi, non sarebbe soddisfacente. Per lo stesso motivo, un suono spiacevole, musicale o meno, ci infastidisce (o annoia) così tanto: se una composizione elettronica atonale durasse 7 secondi (e non 7 ore) non sarebbe altrettanto noiosa; se il rumore del traffico ci entrasse in casa solo per 7 minuti al giorno, sarebbe accettabile. Nella musica, il nostro senso del tempo viene manipolato dalla struttura: quando ricomincia la strofa dopo il ritornello, è come se una canzone ricominciasse – con la differenza che adesso già la “sappiamo”, e possiamo aspettare che torni di nuovo. Di più: se una musica ci prende, quanti riascolti ne esauriscono l’effetto? 7? 700? 700 milioni?

Tutti sappiamo sentire, e in molti sappiamo ascoltare. Però ascoltiamo soltanto quello che ci piace, e quasi sempre in maniera completamente sensuale: ci abbandoniamo alla musica, o a un paesaggio sonoro rilassante e piacevole. Compito di chi manipola i suoni dovrebbe invece essere quello di saper ascoltare sempre, di capire la natura timbrica e strutturale di quello che gli passa per le orecchie. Da cose molto semplici (che strumenti sto ascoltando? Qual’è la struttura di questo brano?) a cose più difficili, come cogliere l’incredibile complessità del suono di una lattina che rotola per le scale (semplice, naturalissimo nel suo sviluppo ma non riproducibile artificialmente), o cercare di intuire l’essenza sfuggente dello Sharawadji – “quella sensazione di pienezza che si crea talvolta nella contemplazione di un paesaggio sonoro complesso la cui bellezza è inspiegabile.”

E’ un bellissimo viaggio, che faccio insieme a studenti assai incuriositi, qualche volta annoiati, spesso stupiti. Lo facciamo aiutandoci con un bel libro, Repertorio degli Effetti Sonori, di J.F. Augoyard e H. Torgue (2003 LIM), dove sono ben spiegate molte delle esperienze sonore possibili, incluso il favoloso Sharawadji.

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