Gelato artigianale

C’è una cosa alla quale non rinuncio mai durante l’estate, ma che anzi costituisce la base della mia dieta estiva da giugno a settembre: il gelato. E’ dolce, peccaminoso (oltre alle ovvie considersazioni sull’erotismo del gelato, avete mai provato a sgocciolarne un pochino sul vostro partner e poi leccarlo via? Molto meglio della panna), rapido, nutriente e c’è sempre spazio per farsene un altro. Ti nutri e godi allo stesso tempo: ideale. Insomma, nel mio pantheon il gelato sta molto in alto. Quale gelato? Tutto il gelato, quello onesto; e il problema, ahinoi, è proprio qui.

C’era una volta il gelato; era di due generi, confezionato e sfuso. Quello confezionato aveva delle hit (il camillino, il cornetto, il cremino) mentre quello sfuso era rappresentato dai soliti gusti (cioccolato, nocciola, pistacchio, etc.). Per mangiare un buon gelato artigianale la gente faceva dei chilometri: pellegrinaggi alla volta di quelle due o tre gelaterie che facevano un gelato che spacca; ditte rinomate con decine di anni di esperienza, punti di riferimento per tutta la città (penso a Giolitti a Roma), austeri templi della degustazione gelata. L’alternativa era un croccante all’amarena al bar sotto casa. Questo situazione, inalterata per anni, ha ceduto negli anni ’80 sotto il peso di una infame moda: le gelaterie artigianali taroccate, gestite da cazzoni finto gelatai con camicia a righe e sapienza gelataia meno di zero.

Le riconosci immediatamente: si chiamano “il tempio del freddo”, “yogurteria tenerona”, “senzazucchero”, “cono and go”, mirtillogiallo”, “gelatomania”, “la fragolotta” (non mi credete? Venite a vedere che coraggio hanno a Milano). Dentro c’è un coglione gioviale che di gelato non capisce nulla. Sorride, vestito da pagliaccio, e spaccia il suo acquatico prodotto con l’aria di venderti qualcosa di speciale. E Infatti i gusti che ci propone sono senz’altro degni di nota: funghi, birra, fragola bianca, the freddo, fino all’inarrivabile gusto “Tamagotchi” proposto da un “gelataio” di Milano (e che, alla mia domanda se per caso sapeva di plastica, ha risposto altezzoso: “E’ un nuovo sapore di mia invenzione, dolce e tenero come il pulcino”. Fortuna che non vado in giro armato). A volte il suo gelato è “naturale”, oppure “a base di yogurt naturale” (come se esistesse uno yogurt artificiale), può essere “vegetariano” (spero che non ci sia un altro fesso che si incazza: non ce l’ho mai avuta coi vegetariani), “senza grassi” o “a base di soia” ma comunque, nel 99.9% delle volte il suo gelato fa cacare. Lui non lo sa fare; non gli serve, ne’ gliene frega. Ha fatto la domanda alla camera di commercio, gli hanno dato la licenza ed ha aperto. Il gelato forse imparerà a farlo in seguito, a nostre spese. Intanto ammortizza l’arredamento spacciando il suo squaquarone al ribes verde con granella di noccioline.

Vaffanculo, “casa del gelato naturale”; non lo voglio il tuo ghiaccio aromatizzato al mais di merda. Tanto meglio un eldorado del cazzo. Almeno so esattamente cosa aspettarmi. E poi, a parte i nomi, i gelati confezionati non sono affatto cattivi (chi cazzo li inventa quei nomi? Nocchiero? Stecco Ducale? Calippo ? Sarà una malattia mentale che li spinge a chiamarli così? Ci sono gelati che non ho mai provato solo per la vergogna di chiederli). E sono comunque sempre meglio del gelato fatto a mano dal cazzone all’angolo. Il nevelatte per esempio, batte qualsiasi cono neo-artigianale di merda: è buono, ha la giusta consistenza, un sapore studiato attentamente e un retrogusto divino (certo che è finto: ma anche il gusto di puffo o di ribes hawaiano sono finti, e in più sono cattivi). Non come quella “sciolta di marroni in salsa acquosa” che un cazzone senza vergogna si permette di vendere sotto casa mia, autorizzato da una moda imbecille (da cui perfino alcuni lettori di Rumore non sono esenti) che dice che tutto quello che è “naturale” è buono (anche la mia merda) e tutto quello che è confezionato fa schifo (inclusa la musica di Jimi Hendrix, forse).

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