Architettura insostenibile

Esistono moltissime categorie professionali che, in un modo o nell’altro, aderiscono a un codice deontologico, una serie di regole e orientamenti che ne influenzano le scelte. In alcuni casi si tratta di obblighi di legge: i giudici non possono avere rapporti personali con gli imputati; i medici hanno l’obbligo alla riservatezza; i giornalisti sono tenuti a non rivelare le proprie fonti. In altri casi esistono dei codici di auto-regolamentazione, spesso generici, a volte molto antichi, quasi mai rispettati pienamente. Si va dal giuramento di Ippocrate dei medici (che a leggerlo fa sorridere) al codice di autodisciplina dei pubblicitari, che è umorismo allo stato puro: la réclame non dovrebbe indurre “l’abitudine a comportamenti alimentari non equilibrati”. Certo.

Da qualche anno mi interrogo sulla deontologia professionale dei designer, e di recente anche degli architetti. Nella vita di tutti i giorni ci troviamo ad avere a che fare con migliaia di oggetti, tutti disegnati da qualcuno. Certi sono pensati bene, altri meno. Alcuni piacciono proprio per l’apparente assenza di design, mentre invece c’è chi adora lo spremi-agrumi di Philippe Starck, classico esempio di design ardito ma scarsamente funzionale. In questo caso però si sa da prima (anche per via del prezzo, a volte inversamente proporzionale alla funzionalità) e si può scegliere. I designer però non immaginano soltanto forchette, ma esercitano la loro creatività anche in una gamma sempre più varia di strumenti contro l’umanità. Oggetti disegnati allo scopo di scoraggiare, impedire, maltrattare, e anche lesionare. Panchine anti-barbone, spunzoni anti-seduta, scalini anti-skate, ma anche manganelli più dolorosi, manette più strette, e il capolavoro del design maledetto: il razor wire, il nuovo filo spinato con spunzoni e lame affilate, che se non ti sfiletta, comunque ti sfregia. Chi è che si mette a immaginare un filo spinato più feroce? Non ti andava bene quello che c’era? E come fai a dormire la notte? Non li vedi i profughi in tv? Almeno Smith & Wesson avevano la decenza di metterci la faccia. A pensarci bene, ognuno di questi oggetti ha dietro uno stronzo, anonimo, che si è seduto alla scrivania e ha pensato: “Adesso invento una panchina che impedisca ai barboni di dormirci sopra”. Mi sono chiesto: ma non ce l’hanno un codice deontologico i designer? Apparentemente no.

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Se si va a vedere, nella storia delle carceri (vedi “Sorvegliare e Punire” di Michel Foucault) la grande innovazione architettonica è il Panopticon di Jeremy Bentham, che consente a poche guardie di sorvegliare tanti detenuti. Molte carceri sono costruite intorno a quel progetto. Naturalmente bisogna intendersi sul concetto di galera: è riabilitazione? E’ pena? E’ un posto dove teniamo i cattivi? Serve anche a spaventare, e quindi la sua durezza è uno strumento di dissuasione al crimine? La risposta è complessa, e diversa da paese a paese. Però aprendo Google maps, si scopre un universo di architettura perverso e a volte terrificante. Il carcere di super-massima sicurezza di Pelican Bay (foto) è diviso in due parti: una generale, con aree esterne. E poi la famigerata Secure Housing Unit: un cluster a forma di X di edifici bianchi in mezzo a un terreno sterile. Un recinto elettrico circonda tutto il perimetro. Qualcuno ha ideato e progettato tutto questo. Non solo, ma centinaia di suoi colleghi hanno disegnato e realizzato edifici in cui l’architettura viene usata come strumento correzionale, se non di tortura. Naturalmente i carcerieri vogliono carceri più feroci. E trovano degli architetti che gliele disegnano, gente che poi magari si fa pure bella col design sostenibile. Chi sono? Dove abitano?

Bisognerebbe istituire il Premio Panopticon, per il designer e l’architetto che si sono distinti maggiormente nell’odio verso l’umanità. Così almeno sappiamo chi sono, e magari scopriamo cosa spinge un essere umano a immaginare cose così brutte e spiacevoli.

PS: questo mese fanno vent’anni che scrivo su Rumore.

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